«Per discutere dello stato della cultura a Milano, cercando di evitare i soliti luoghi comuni, è bene innanzitutto chiarire cosa intendiamo, precisamente, con il termine “cultura”». Franco Branciaroli, attore e regista teatrale milanese, inizia così la sua intervista a IlSussidiario.net, offrendo un nuovo contributo al dibattito aperto sul tema dallo scrittore Luca Doninelli.
«A mio parere, la cultura è in contrapposizione con il sapere. La vera cultura è infatti una manifestazione della vita, dell’esistenza. Riguarda tutto, non solo le forme “alte” o “superiori”, ma anche come si fa il pane e come si produce il vino. La mia ipotesi di partenza è che la cultura sia stata distrutta dal sapere e che ciò che noi oggi chiamiamo “cultura” non sia altro che l’esposizione museale di un settore della cultura umana, come ad esempio le arti del passato. Il fatto è che quando si parla di questi temi, o quando si “amministra” la cultura, molte ambiguità, furbescamente, non son chiarite».
Cosa intende dire?
Come si misura la vitalità culturale di una città? Dal numero di mostre o dal numero di concerti rock? Ognuno, com’è comprensibile, ha la sua idea in merito. E lo Stato cosa deve finanziare? Il Teatro o il cinema, i pittori o gli scrittori?
Lei come la pensa in proposito?
In democrazia fortunatamente non c’è una commissione di saggi che decide cosa è arte e cosa non lo è. Ai politici però bisognerebbe chiedere un po’ di coerenza.
Io, ad esempio, sono convinto che il cinema non andrebbe finanziato. Sponsorizzando una sceneggiatura chi ci dice che il risultato finale sarà un’opera d’arte? O forse si è scelto di finanziare l’intrattenimento? Se l’idea è questa allora bisognerebbe dare fondi anche alle discoteche e ai concerti rock.
Guardiamo il rovescio della medaglia: quanto costa realizzare un “Edipo Re”? Visto che il Teatro costa non lo mettiamo più in scena negandolo alle generazioni future?
Vuol dire che le istituzioni hanno abbandonato il Teatro, preferendogli l’intrattenimento?
Il Teatro, da che mondo è mondo (senza escludere i greci) vive perché finanziato dallo Stato, dal Principe o da chi per esso.
Ai tempi di Grassi e di Strehler il teatro milanese aveva dalla sua parte il Comune, il Ministero dello spettacolo e, “gramscianamente” la politica. Il Piccolo, tanto per essere chiari, nasce nel dopoguerra, quando manca il pane… e una delle prime commedie, El nost Milan, viene scritta dal Sindaco Antonio Greppi.
Oggi, invece, ha tutti contro. Chi taglia ha buon gioco, ma la realtà è che senza soldi il Teatro muore. Di conseguenza, se anche nascesse un nuovo genio teatrale oggi sarebbe fregato. Certo, le contraddizioni non mancano…
Cosa intende dire?
Ci sono gruppi che da trent’anni sono finanziati per fare “teatro di ricerca”. Cercano un nuovo modo, ormai con i capelli bianchi si rotolano per terra… La realtà è che non hanno trovato nulla. Se in scena va ancora il teatro di prima significa che qualcosa è andato storto…
Facciamo un passo indietro, il Teatro a Milano non ha più grandi personalità come accadeva in passato?
Assolutamente no. A mio avviso, Ronconi è più grande di molti registi del passato. Per il motivo che le dicevo prima, però, la condizione in cui lavora è molto più difficoltosa di un tempo.
Se da un lato, quindi, è un errore continuare a dire che non ci sono più i geni (spesso mitizzati) di una volta, dall’altro non può nemmeno nascere un Samuel Beckett ogni venerdì… Ovvero, parliamo di un gigante assoluto, morto praticamente l’altro ieri e di cui non basterebbe una vita per approfondirlo. Lo stesso discorso vale se ci riferiamo ai grandi capolavori del passato: non parliamo certo di archeologia, o dei romanzetti d’oggi, sono cose che possono levarti la pelle di dosso… Il Teatro, in pratica, non si esaurisce, è una forma di conoscenza speciale e c’è ancora molto da fare. Piuttosto, siamo sicuri che abbia ancora senso parlare del Teatro di Milano?
Cosa intende dire?
C’è stato un periodo, per una lunga serie di motivi, in cui se volevi vedere Strehler dovevi andare a Milano, mentre l’Eliseo a Roma era il regno di Visconti. Oggi gli spettacoli sono itineranti e girano l’Italia. Di conseguenza il Teatro che si vede a Milano non è molto diverso da quello che vedi a Cesena. Non ne farei un dramma, sono i casi della storia, ma non c’è più una specificità cittadina.
Andrée Ruth Shammah, è intervenuta nel dibattito dicendo che a Milano non manca una proposta culturale, piuttosto la capacità di comunicarla, di renderla fruibile. Lei è d’accordo?
In parte. Smentiamo però un altro luogo comune: i teatri non sono vuoti. Il problema non sono i teatri da riempire, né i cartelloni poco visibili, perché chi va a Teatro sa come informarsi. Forse è più interessante chiedersi qual è il pubblico che va a Teatro, a Milano come in tante altre città. Anzi, proprio questo è il punto: quello di oggi non è un “pubblico”, è “gente”.
Cosa significa?
I teatri stanno in piedi grazie alle scuole e ai pensionati (questo vale anche per le Prime, non solo per le repliche). Pochissimi i giovani e i cosiddetti appartenenti al ceto produttivo. Ad ogni modo, proprio perché è un “pubblico organizzato”, da Cral e scolaresche, non è un pubblico vero, magari legato e affezionato alla storia di un teatro. Per questo se si taglia indiscriminatamente o un teatro chiude nessuno protesta. Una volta ridotto a “servizio”, un palliativo si trova sempre: un altro teatro, o piuttosto, un bel cinema…
E se le chiedessi da dove si ricomincia?
Indicherei la Germania. Anche loro hanno avuto la crisi economica, ma non si sono mai sognati di tagliare ciò che il popolo e i politici ritengono che non possa essere sacrificato. Non a caso, se in Germania chiude un teatro scoppia una sommossa. Non è il caso di deprimerci troppo, avverrebbe lo stesso da noi se chiudessero la Scala, perché il melodramma è il nostro vero teatro.
Ad ogni modo, se si vuole davvero ricominciare non si può dire in maniera ipocrita che lo si potrà fare senza fondi. Certo, quelli non basteranno se mancherà la genialità, ma io ne vedo in giro ancora e, comunque, non può nemmeno nascere un Samuel Beckett ogni venerdì…
(Carlo Melato)