Com’è cambiato nel corso dei decenni il lavoro a Milano? Dopo gli interventi del mondo del sindacato e dell’università, il dibattito de IlSussidiario.net prosegue con il punto di vista del Presidente della Compagnia delle Opere di Milano, Massimo Ferlini.
«Ogni mattina, guardando fuori dalla finestra del mio ufficio, ho davanti agli occhi quella che era la città delle grandi aziende manifatturiere e che oggi è la città degli uffici, dei servizi e del terziario», diceva Gigi Petteni, segretario lombardo della Cisl. Quali sono però i motivi di questo mutamento e quali le politiche più appropriate per rispondere a queste trasformazioni? «Laddove e quando, anche a Milano, una visione ideologica ha cercato di imporre, attraverso vincoli e blocchi, il mantenimento delle fabbriche e delle infrastrutture produttive, è stata la stessa economia a rifiutarlo. Per questo occorre una guida attenta che possa favorire e incentivare la diffusione e l’applicazione di tecnologie sostenibili. Una politica industriale che non sia dirigista, ma che vada nel segno dell’innovazione, della ricerca e dell’esportazione. All’interno di questa logica sono convinto che, sia come sistema Italia che come sistema economico lombardo, il settore manifatturiero oggi vada salvaguardato».
Quanto incide la progettazione della città sullo sviluppo dell’economia e del lavoro?
Molto, a Milano i precedenti piani regolatori cercavano di mantenere ad ogni costo la natura industriale di alcune aree, ma il mercato si è sempre ribellato a questi vincoli. L’esperienza del passato ci dice perciò che è possibile immaginare di incentivare la produzione aumentando il valore aggiunto o favorendo lo sviluppo industriale, la pianificazione però dev’essere di larga scala, perché ragionare limitandosi ai confini comunali è un errore.
A questo proposito, il Pgt appena approvato rappresenta un passo in avanti?
Direi di sì. Innanzitutto in termini di metodo, perché attraverso la perequazione realizza una pianificazione partecipata , in secondo luogo, ha il merito di difendere la competitività dell’area urbana milanese. All’interno di questo quadro, con la flessibilità necessaria, c’è tutto lo spazio per l’insediamento di settori produttivi. La produzione non andrà però decisa sulla base del passato, ma dello sviluppo economico, anche perché è probabile che se Milano vuol tenere alta la propria competitività dovrà attrarre e mantenere le punte più avanzate dei servizi alla produzione.
Quali sono le caratteristiche peculiari del lavoro nel capoluogo lombardo, che hanno resistito ai cambiamenti del tempo?
Milano è nata e si è sviluppata grazie alla sua posizione geografica. È infatti al centro di una delle più grandi pianure produttive. Da luogo di mercato, caratteristica che ha saputo mantenere, in base ai cambiamenti ha mutato la propria composizione economica, facendo crescere l’industria quando ha iniziato a prevalere il settore industriale, diventando poi la città terziaria per eccellenza. Oggi affronta la crisi mantenendo i nodi degli scambi e sviluppando quel terziario avanzato, fatto di piccole e grandi imprese, che fa da supporto alla ricerca e alla produzione nel mondo.
Come ha saputo affrontare questa difficilissima crisi economica?
Attraverso una strumentazione di sostegno (il pacchetto degli ammortizzatori sociali) finalizzata a mantenere i rapporti di lavoro in essere in un momento di grave difficoltà. Un indicatore che ci dice che Milano ha saputo rispondere alla crisi è quello della mobilità da un posto da lavoro all’altro: è sempre rimasta attiva e positiva. Significa che le imprese hanno saputo capire quali fossero le trasformazioni necessarie e adeguarsi, in modo da poter rispondere ai primi segnali di ripresa della domanda mondiale.
Tra i punti di forza di Milano c’è sempre stato quello di saper fare rete. È ancora così?
Da un lato Milano ha mantenuto saldi i nodi con le reti mondiali, dall’altro sembra aver perso un po’ della capacità di far fruttare questa rete e di far emergere ciò che c’è in città. Milano, se vuole mantenere le caratteristica di una città avanzata, deve, ad esempio, saper attrarre neolaureati dal resto del mondo. Quando ci si accorge che i nostri migliori laureati per affermarsi devono andare via è una sconfitta doppia, significa che la città si sta impoverendo.
Secondo il Prof. Del Conte questa è la città dei lavori innovativi e delle nuove professionalità, allo stesso tempo non sa più insegnare i vecchi mestieri…
Credo che Milano sia già una piattaforma dell’innovazione e che, in futuro, potrà esserci il ritorno delle professioni tradizionali. Basta osservare quante attività di orli e cucito hanno aperto in città. Dal piccolo al grande negozio di sartoria, si sta sviluppando un nuovo settore di servizi alla famiglia. Questa, a mio parere, è la punta d’avanguardia di una serie di servizi che si stanno industrializzando in forme nuove.
Il mestiere del ciabattino per anni non si è insegnato più. Sono però convinto che, come stanno già facendo molte scuole professionali, ci sarà un recupero in questo senso. Non tornerà solamente l’artigiano di un tempo, perché chi tornerà a fare la scarpa su misura sarà affiancato da catene in franchising che avranno studiato come svolgere al meglio il servizio per le famiglie. D’altronde, è successo lo stesso con la sartoria e con la ricerca del gusto e dei cibi tradizionali e di qualità. È un’altra, a mio avviso, la gamba mancante….
Quale?
Mi riferisco a quale nuovo welfare, a quale nuovo sostegno, a quali garanzie e tutele del lavoro devono affermarsi nel territorio affinché sia competitivo da un lato e inclusivo dall’altro. La nuova Fondazione Welfare Ambrosiano, aperta da sindacati, Comune, Provincia e Camera di Commercio, indica una nuova strada e lancia una nuova sfida: far passare un nuovo welfare aziendale, nato in sede di contrattazione e di responsabilità sociale, facendolo diventare una nuova proposta territoriale integrativa del sistema sanitario e del sistema pensionistico nazionale. Solo in questo modo si potrà rispondere a quella domanda di parità di tutele che anche i nuovi lavori avanzano. Non solo, questo nuovo settore produrrà a sua volta nuovi lavori e nuove professioni, nel campo socio-sanitario o dell’assistenza.
Nonostante i cambiamenti che abbiamo descritto il lavoro pone ancora una domanda di senso?
Certamente, penso anzi che sia più forte di prima. Se un tempo infatti questa era data dall’appartenenza alle grandi “cattedrali” del lavoro, perché il lavoro industriale andava in quella direzione, oggi lo “spezzettamento” ha riportato questa domanda di senso alla responsabilità del singolo.
È a questo livello che noi vogliamo partecipare, affinché i singoli, facendosi compagnia, possano ritrovare quell’amore e quella passione che porta nel lavoro la sfida dell’artigiano: faccio al meglio il pezzo a cui mi sto dedicando perché in questo modo testimonio la mia partecipazione alla realtà. Per chi è ispirato religiosamente questo significa partecipare al disegno divino, per tutti gli altri è la possibilità di dare al proprio fratello il meglio di ciò che sta facendo, come se lo facesse per se stesso.