Ci sono due modi per cercar di capire come sta andando la nostra città. Uno è quello di leggere i giornali, frequentare i posti che contano, sapere cosa bolle in pentola, cosa si dice al Corriere, alla Scala, in questo o in quell’Assessorato, cosa pensano alcuni cittadini eccellenti (Sindaco, Commissario Expo, Assolombarda, Camera di Commercio, ecc.), qual è insomma l’orientamento dei cosiddetti stakeholders. Un altro è quello di guardarsi in giro alla ricerca dei segni che la vita della città, volente o nolente, continua a lasciare dietro di sé.



Chi vuole veramente conoscere la città farà bene a non lasciare mai il primo modo senza il secondo. Frequentate tutte le stanze dei bottoni che volete, ma non dismettete mai la vostra sacrosanta curiosità.

Dunque. Quanti tra voi, a meno che non ci vivano o non abbiano qualche persona cara da andarci a visitare, si sono mai fatti un giretto per Ponte Lambro, per Quarto Oggiaro o per Vialba? Quanti di voi hanno mai messo piede nel quartiere Forlanini? Quanti, a parte il mio amico poeta Maurizio Cucchi, si sono mai fatti quattro passi (molto piacevoli) per Villapizzone?



Spero conosciate il Parco delle Risaie, il Nocetum e altri luoghi straordinari della nostra Milano.
Altrimenti fate come me: prendete uno, due, tre mezzi pubblici – quelli che servono – e fateci un giro senza altro scopo che quello di guardarvi un po’ intorno. Imparerete molte cose.

Io, che faccio queste cose per passione, da questi miei giri ho imparato a guardare la mia città con occhio disincantato: che non vuol dire né pessimista né scettico, ma soltanto lucido. E se sono facile ad accendermi per qualcosa di bello, non per questo mando al macero il mio senso critico.



Adesso molte cose nella nostra città sembrano essersi messe a funzionare per il verso giusto, o questo è comunque quello che siamo propensi a credere, sia perché in effetti molti grandi progetti, dopo decenni di immobilismo, si sono messi in funzione, sia perché la gente a Milano è meno stupida di quanto sembri e vuole partecipare alla vita della città: le code che hanno stazionato perennemente non solo davanti al Museo del Novecento, ma davanti agli ingressi di molte esposizioni e manifestazioni sono la testimonianza di questa voglia.

Una ricerca che ho fatto fare ad alcuni miei studenti un paio d’anni fa ha dimostrato, per esempio, che perfino l’happy hour, lungi dall’essere un’area di parcheggio per una generazione senza ambizioni, è innanzitutto un luogo di socializzazione, a testimonianza del fatto che la gente ha bisogno di stare insieme, di incontrarsi, di stringere rapporti un un contesto urbano – la cosiddetta metropoli post-moderna – che sembra fatto più per frammentare che per unire.

Ma camminare per Milano cercando di leggere la sua grammatica urbana ci induce anche a tenere alta la guardia. Posso dire con certezza che non ci troviamo di fronte ad alcun Nuovo Rinascimento Milanese, e che sarebbe pericoloso illudersi in questo senso.

Tanto per fare un esempio: i grandi progetti di riconversione delle aree di Porta Nuova e dell’ex-Fiera arricchiranno tra breve il nostro paesaggio urbano di nuove, sontuose costruzioni (destinate in ogni caso a un’élite privilegiata) che però non hanno nessun rapporto con la tradizione architettonica della nostra città.

Per “rapporto” non intendo necessariamente “continuità”, ma, più semplicemente, “dialettica”. Tutto questo vetro, che ricorprirà queste mastodontiche costruzioni, semplicemente ignorerà il contesto circostante, inserendo in Milano frammenti urbani che potrebbero essere, indifferentemente, pezzi di Londra, di Chicago o di Shanghai.

E a dirlo è un sostenitore dei grattacieli e della densificazione e di tutto ciò che in qualche modo può produrre movimento.

Ma non è questo che m’importa. È piuttosto un’aria di poteri forti in movimento, come se dopo aver lasciato ballare i topi il gatto fosse finalmente tornato a dirci – lui – come dovrà essere Milano, quali saranno i soggetti abilitati a sedere a questo o quel tavolo, e così via.

Camminando per le periferie milanesi mi sono accorto che, pur talvolta nel disordine, per lungo tempo, direi per secoli, non è mai venuta meno a Milano una passione per l’uomo, una cura per la sua dignità, un’attenzione a fare in modo che i progetti (che so, l’edificazione di un nuovo quartiere popolare) non scavalcassero mai una misura umana: quella che oggi, con una parola che però allontana l’oggetto dal senso comune, viene chiamata sostenibilità (e che, come tutti i paroloni, finisce per dire tutto e nulla).

Quello a cui assisto camminando per Milano è lo spettacolo, talora grandioso, ma talora anche umile e dimesso, di una cura per l’uomo, per il suo benessere.
Ma non è la sola cosa a cui assisto. Assisto anche a una perdita, a uno smarrimento di questo senso comune, come se da un certo momento in avanti i calcoli di potere e le elucubrazioni degli ideologi avessero preso il sopravvento su ogni altra preoccupazione. 

Così tanti quartieri nati negli anni Cinquanta e Sessanta con un bel progetto non sono stati aiutati a crescere, ad affrontare i cambiamenti, non sono stati arricchiti di nuove strutture divenute col tempo necessarie, e così si sono allontanati dal tessuto della città, sono caduti nel degrado oppure hanno visto crescere il disagio dei loro abitanti.

Per decenni chi ha amministrato questa città ha cancellato l’uomo dal proprio orizzonte. Crimini veri e propri sono stati commessi dai suoi amministratori (un nome su tutti: Ponte Lambro, che da pacifico e grazioso borgo di lavandai fu scientificamente trasformata in una specie di enclave infernale).

Per anni ho sentito urbanisti, architetti e assessori parlare della Milano di domani come se una città si potesse progettare a tavolino. Questo ha prodotto nella città un buco nero fatto di spazio e di tempo, che è molto difficile da colmare, e se devo essere sincero non vedo ancora i segni di un’uscita dal tunnel.

Adesso chi porta avanti i diversi progetti (Expo in testa) dopo tante parole se ne sta zitto zitto: speriamo che nel silenzio lavori, ma dubito che stia lavorando per noi. Quello che stanno facendo in fondo non ci riguarda se non per le conseguenze che ricadranno su di noi. E i milanesi, perdìo, non sono dei semplici fruitori di conseguenze!

Per finire. Se difendo il nuovo Pgt non è perché sia perfetto, ma perché si fonda su un’idea realista della città, sulla fiducia e sulla stima nei confronti dei cittadini e sulla persuasione che i soggetti forti sul territorio (i già citati stakeholders) hanno il dovere non di dirigere la città a loro piacimento ma di ascoltare il brusio della città, la sua voce plurale, il suo umore, la voglia di fare dei suoi cittadini, la sua capacità di inventare forme di vita al di fuori degli spazi previsti.

Hanno il dovere, in altre parole, di lasciarsi sorprendere. E questo, mi spiace, non sta succedendo.

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