La crisi, i tre soci che vanno ognuno per la sua strada, un mercato che cambia continuamente costringendo la sua impresa a una serie continua di svolte obbligate. Senza mai mollare, perché dietro a ciascuno dei suoi quattro dipendenti c’è una famiglia che non si può lasciare sul lastrico. Giuseppe Verduci, 53 anni, una ditta con sede a Opera, racconta per Ilsussidiario.net che cosa ha voluto dire per lui la scommessa di continuare a fare l’imprenditore in questi anni di turbolenze economiche.



Verduci, che cosa significa per lei fare l’imprenditore?

Ricordarmi ogni mattina che i miei quattro dipendenti per me sono quattro famiglie. E fino a quando potrò tenerli qua continuerò a farlo, anche a costo di non prendere lo stipendio e finanziare l’azienda per andare avanti, perché mi appartiene ed è questo il mio compito. Altrimenti avrei mollato l’impresa e sarei andato a fare il dipendente altrove, e non è che le opportunità mancassero, ma non ho voluto. Del resto questo non è vero soltanto in questo momento di crisi…



In che senso?

Ho sempre avuto chi mi ha educato a essere più attento ai bisogni degli altri, che non alla volontà di arricchirmi. La mia azienda è sempre stata un porto di mare dove arrivava gente che aveva bisogno di un lavoro, li facevamo accomodare aspettando che trovassero un’occupazione più stabile. Per non parlare dell’amico che ti chiede di insegnare al ragazzo di insegnargli a fare il tecnico e poi di trovargli un lavoro… Insomma, ho fatto anche molta formazione…

Quali sono stati i punti di svolta che ha dovuto affrontare la sua impresa?

La prima «rottura» è stata quella del 2001. Con le Twin Towers è caduta anche una serie di certezze per la realtà economico-imprenditoriali. Tutto il mondo della piccola impresa ha iniziato a soffrire e nel 2002 c’è stata una crisi pesantissima e un calo di fatturato enorme, perché i nostri clienti avevano deciso di non investire più. Noi che eravamo piccoli abbiamo vissuto crisi molto pesante, di valori oltre che di lavoro. Quando ti crollano le certezze economiche, ci si sente rimessi in discussione anche sulle proprie convinzioni. Grazie a un’intuizione, sono ripartito investendo molto sull’arredo-ufficio. Tra i servizi che fornivo era l’unico su cui avevo la possibilità di rilanciarmi. E così ce l’ho fatta, riuscendo a risanarmi giusto in tempo per essere messo di nuovo in ginocchio dall’ultima crisi, che si è fatta sentire in maniera pesante per tutto il 2009.




Che cosa l’ha messa di più in difficoltà?

La tecnologia ha permesso di abbattere i costi. Una volta un fax costava 2 o 3 milioni e c’era quindi bisogno della nostra consulenza dall’acquisto all’assistenza tecnica. Oggi con 200 euro se ne compra uno di buona qualità, e quindi se si guasta è meglio sostituirlo che farlo riparare. Inoltre, nel 2002 era possibile scommettere ancora sulla progettazione degli uffici. Ora questo ruolo è stato conquistato dalle grandi catene con Ikea.

Quali sono state le conseguenze?

Che sono di fronte a una continua sfida, che consiste nel chiedermi: «Di che cosa c’è bisogno oggi?». Per esempio puntando sulla capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici in anticipo rispetto agli altri, aiutandoli a modernizzarsi. Ma anche qui, una volta che si sono modernizzati, chi offre servizi deve trovare dei nuovi settori. Per non parlare del fatto che i miei tre ex soci sono andati ciascuno per la sua strada, aprendo tre nuove imprese.

E perché diceva che questo l’ha messa in discussione?
 

Per esempio nei confronti della mia iscrizione alla Compagnia delle opere. Dopo tanti anni di lavoro insieme, di fronte alla crisi avevo la pretesa che chi avevo intorno mi aiutasse di più, avevo bisogno di trovare risposte. E mi era sembrato di non averle avute. Poi con il tempo ho cambiato posizione, mi ero reso conto di essermi fossilizzato su alcuni aspetti, e che non erano quelli determinanti.
 

Che cosa la sta aiutando in questo «percorso a ostacoli»?
 

Io sono stato tra i soci fondatori della Compagnia delle opere di Milano. Ho la tessera numero 60, ma a un certo punto, sommerso da problemi, avevo perso i contatti. Il fatto di avere deciso di riallacciarli, mi ha permesso di cambiare il modo di vedere i problemi. Non so che cosa succederà domani alla mia azienda. Ma innanzitutto la prima questione è restare aperto alle nuove possibilità che mi si aprono. Alcune me le sto andando a cercare. Sto ricominciando a guardarmi intorno, perché la sfida è quella di cogliere le opportunità che ti capitano.
 

Concretamente, in che modo sta avvenendo?
 

Un aiuto concreto mi sta venendo attraverso i rapporti che ho instaurato nel frattempo. La differenza sta proprio in questo: che mentre la prima volta sono riuscito a venirne fuori da solo, adesso ho bisogno di una compagnia che mi consenta di mantenere la lucidità di fronte a quello che sta accadendo. Solo così è possibile cogliere quello che c’è di positivo. L’anno scorso per esempio ho incontrato un altro imprenditore, che dopo un po’ mi ha telefonato per presentarmi un amico. Parlando insieme, abbiamo pensato che se univamo le forze potevamo comprare una macchina digitale, e così abbiamo avviato un nuovo business. Non è una risposta totale ai problemi della mia azienda, ma questo mi sta consentendo di rimanere sereno e di non angosciarmi di fronte ai rischi insiti nel mio mestiere.

Da dove nasce questa sua posizione?

Per rispondere a questa crisi c’è bisogno della certezza di non essere soli. Anche perché incontrare nuovi business è l’unica possibilità che ho. Sto vedendo tanta gente che chiude anche perché non ha le forze umane per andare avanti. E’ prima di tutto un problema «culturale»: se uno non si apre alla realtà, non vede le possibilità di business.

(Carlo Melato e Pietro Vernizzi)

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