E’ molto bella, e la consiglio a tutti, la mostra “Impressionisti. Capolavori della collezione Clark” esposta a Palazzo Reale. Andate a visitarla, per due ragioni semplicissime.

La prima è che vedrete opere meno note, ma bellissime, di grandi maestri – Renoir, Toulouse Lautrec, Degas, Monet, Manet e molti altri – di cui solitamente ammiriamo un numero molto ristretto di dipinti (quelli riprodotti sui manuali e quelli esposti al Musée d’Orsay): opere, dunque, sconosciute ai più.



La seconda è che questa mostra vi permetterà di apprezzare il gusto e la passione di un grande collezionista; una collezione importante aiuta in modo decisivo a penetrare il valore di un quadro, perché ai nostri occhi aggiunge sempre quelli di chi lo ha voluto e amato. Senza i collezionisti – di cui fanno parte papi e principi – non esisterebbe, probabilmente, nemmeno l’arte così come noi la vediamo.



Per apprezzare tutto questo val la pena anche di soprassedere ad alcuni aspetti incomprensibili dell’esposizione, come i due manifesti con paesaggio svizzero tra i quali il visitatore è costretto a passare, o come il bookshop che sembra essere stato subaffittato a un editore (Skira) il quale mette in vendita, non del tutto comprensibilmente, solo libri da lui editati. Ma, s’è detto, la mostra vale anche questi scivoloni.

Quello però che mi indotto a scrivere questo articolo è altro. Non fa parte né dei “pro” né dei “contro”: è, semplicemente, un segno dei tempi. Parlo del modo in cui la mostra è stata allestita, con una grande quantità di spiegazioni, talune legittime (come le note sugli autori, tra cui alcuni meno noti al grande pubblico), altre apparentemente superflue, con notizie talvolta così elementari che vien da domandarsi: possibile che tutti questi visitatori non abbiano studiato queste cose a scuola?



Si tratta dell’abc, di delucidazioni che una mostra forte di un certo valore conoscitivo – e questa lo è senza dubbio – di solito non ritiene necessarie, come ad esempio tutte quelle tavole sinottiche o il discorso sul rapporto arte-fotografia, che immaginavo non dovessero aver posto in una mostra dedicata a un grande collezionista, e non in una mostra didattica.

Fino a ieri ero convinto che i frequentatori delle mostre fossero persone che – almeno minimamente – conoscevano quel che basta della Storia dell’Arte da sapere per esempio che in Francia, dopo la metà del XIX secolo, si era sviluppata una corrente artistica nuova divenuta poi nota col nomignolo di “impressionismo”.

La verità invece è un’altra. L’abbondanza di spiegazioni è la risposta a un problema molto concreto. I trentenni, forse anche molti quarantenni – per non parlare dei più giovani – di norma non conoscono quelle cose che viceversa la mia generazione considerava ovvie. L’attrattiva che l’arte esercita su di loro, segno di una mente sana e giustamente curiosa, spesso non è aiutata da quell’infarinatura che un tempo la scuola dava a tutti, e che permetteva tra l’altro di dare un minimo di ordine alle conoscenze acquisite dopo l’età scolastica.

 

Questo non significa che a scuola certe cose non siano più nel programma, ma soltanto che la scuola non ha più trasmesso quelle conoscenze. Per trasmettere una nozione è necessario che, prima, ci sia una comune stima verso ciò che viene trasmesso. Se l’istintività, l’impazienza, il facile emozionalismo minano questa comune stima, allora l’istruzione si riduce a un “parlare di”. E la partita è persa.

Ed ecco allora che l’allestitore di una mostra, se è un uomo coscienzioso, deve includere spiegazioni alle quali solo dieci anni fa non avrebbe nemmeno pensato.

 

Tra poco bisognerà specificare che Morandi era italiano, che Picasso era spagnolo e che quando si parla di Bacon non si intende la pancetta. La colpa non è della gente, che ha voglia di stupirsi, di conoscere cose nuove, di partecipare a quanto di bello la nostra città offre loro. La colpa non è di nessuno. E’ però evidente che i meccanismi della cultura di massa sono molto delicati, e che sarebbe bene, di tanto in tanto, studiarli e dove occorra modificarli, perché il passo tra cultura di massa e imbarbarimento generale è molto breve.

E non è nemmeno un problema di malfunzionamento dell’istituzione-scuola. Si tratta piuttosto di uno stato di depressione della nostra capacità di stima e di giudizio. Se manca quella, l’istituzione può fare ben poco, a parte – come giustamente scriveva Laura Cioni qualche tempo fa su questo sito – sperare, con grande pazienza, nel (sacrosanto) valore pedagogico della noia.