Ne I promessi sposi, quando Renzo entra a Milano si trova piuttosto spaesato e chiede a un passante la strada per andare al convento dei cappuccini, secondo l’indicazione di padre Cristoforo.

“Il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzaretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare”.



Manzoni sta descrivendo una parte dell’attuale Porta Venezia e avverte i suoi 25 lettori dei cambiamenti intervenuti da quell’anno 1628 in cui situa il suo romanzo: “La strada che s’apriva per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa”, l’odierna porta Vittoria, nell’Ottocento fatta di siepi, di polvere, di fango.



Ancora pochi anni fa una lapide sull’ultimo palazzo di corso Venezia ricordava che proprio da lì Renzo era passato seguendo la strada che gli era stata insegnata. Ora, dopo la ristrutturazione dell’edificio, è scomparsa. Metafora di altre, ben più significative.

Nel periodo di solerti riforme che videro gli intellettuali milanesi collaborare con il dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria e poi di Giuseppe II, a partire dal 1770 fino al 1790, vennero operati numerosi interventi urbanistici, affidati a Giuseppe Piermarini, che cambiarono radicalmente la fisionomia della zona. Si costruirono strade adatte al passaggio delle carrozze, si coprirono i fossati.



 

Ma l’amministrazione austriaca soppresse gli ordini monastici insediati sul territorio: già nel 1770 i Serviti che occupavano allora l’antica chiesa di San Dionigi, originariamente voluta da sant’Ambrogio si trasferirono in S. Maria del Paradiso; nel 1782 viene soppresso il monastero delle Carcanine, dette Turchine per il loro abito e l’anno seguente fu abbattuta anche la chiesa abbaziale.

 

Il progetto di Piermarini e dei suoi collaboratori prevedeva di destinare l’area “alla pubblica felicità”, come allora si diceva: una zona per il divertimento all’aria aperta degli abitanti di Milano, per il passeggio; in questo modo l’illuminismo dell’epoca riuscì a dare alla città i suoi primi giardini pubblici. In epoca napoleonica essi divennero ancor più luogo di sfilate e di feste.

Meno vistoso l’intervento operato sul lato destro dell’attuale corso Venezia, ma: “Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti”. Manzoni indica ai suoi lettori il palazzo Saporiti, costruito nel 1812 su disegno di Giovanni Perego, scenografo del teatro alla Scala.

 

L’edificio in stile neoclassico documenta un tipo di gusto significativo a Milano, indice del lusso e della ricchezza di molti, ma anche il suo costo: la perdita di un brandello del passato.