A cavallo tra le zone di decentramento 8 e 9, l’area della Bovisa, afflitta da numerosi problemi, ma nello stesso tempo ricca di opportunità, è stata inserita come ambito di trasformazione urbana nel Piano di Governo del Territorio, approvato dal Comune di Milano il 4 febbraio 2011.
Secondo il Piano, la zona dovrebbe diventare un polo di livello internazionale per la ricerca e l’innovazione sui temi dell’energia e della mobilità sostenibile, con uno Science Park dotato di strutture e risorse per incentivare la collaborazione tra università e industria. Dovrebbe incrementare le funzioni di residenza e di commercio ma, contestualmente, aumentare la quota di verde pubblico con un grande parco urbano e percorsi ciclo-pedonali.
Dovrebbe sviluppare la viabilità e i collegamenti, soprattutto interni. Sono linee strategiche condivisibili? Ricordiamo che fino agli anni Settanta la Bovisa era il polo italiano della chimica. La presenza massiccia delle fabbriche aveva creato forti legami di appartenenza e una diffusa abitudine all’accoglienza degli immigrati.
Poi era arrivata, velocissima, la deindustrializzazione, con conseguenti perdite di occupazione e d’identità, e un grave degrado ambientale, segnato dalle strutture fatiscenti delle fabbriche dismesse e da un pesante inquinamento dei suoli.
La successiva, faticosa, ricerca di un differente equilibrio si è tradotta nella nascita di numerose forme spontanee di riutilizzo degli spazi che cominciano a connotarla come luogo privilegiato della formazione e della creatività. Queste forme di produzione, avviate da privati, si sono inserite nel tessuto abitativo del quartiere in aree dismesse molto frammentate di piccola e media dimensione, mentre gli insediamenti pesanti come il Politecnico (nel 1989), hanno aperto le loro sedi nelle grandi aree ex industriali.
Ma la progressiva gentrification della zona, testimoniata da indicatori come la migliore qualità degli stabili recenti, l’aumento delle quotazioni degli immobili e l’insediamento di nuovi ceti impiegatizi (confermata dalla nascita di locali particolari, come quelli legati al cibo di qualità) non è del tutto indolore. Alle grandi fabbriche si sono sostituite le università, ma il collegamento tra quartiere e accademia non è così stretto come quello di un tempo con le fabbriche).
Se un merito delle citate forme di microproduzione creativa è stato proprio quello di mettere in relazione le diverse popolazioni che abitano l’area, i piani strategici legati alla presenza dell’università e alla prospettiva del futuro polo scientifico, con le conseguenti realizzazioni di natura residenziale per il ceto medio-alto, potrebbero invece dar luogo a una relazione problematica con la dimensione locale, deprimendo alcune specificità, come l’atmosfera “da paese”, cioè discretamente coesa, del quartiere, espellendo funzioni e residenti storici e impoverendo in sostanza per tutti la qualità dell’abitare.
Un primo correttivo potrebbe essere la riduzione del consistente pendolarismo studentesco (una popolazione temporanea già numericamente maggioritaria rispetto a quella stanziale nell’area), trattenendo gli universitari in residenze per loro accessibili nel periodo degli studi, ma potenzialmente anche dopo, in vista di una stabilizzazione che contribuirebbe alla vivacità economica e culturale della città e alla sua internazionalizzazione, e compenserebbe l’invecchiamento della popolazione.
Il rischio, altrimenti, è che le politiche di recupero delle aree degradate radicalizzino la contrapposizione tra residenti e utilizzatori, e tra residenti di fascia alta e residenti di fascia medio-bassa. Non è facile infatti, soprattutto in periferia, conciliare il ruolo di gateway di una città come Milano con quello di “luogo”; rispondere alle domande degli utilizzatori (con le spinte allo sviluppo che ne derivano) e insieme alle domande di prossimità dei residenti, in particolare degli anziani.