Ho letto con molto piacere l’articolo di Giuseppe Frangi sulla Montagna di Sale di Mimmo Paladino. Opera interessante, certo, ma si tratta della solita importazione di qualcosa che è stato fatto per un’altra destinazione. È un vizio milanese, un modo per fare dell’arredo evitando di porsi il problema di cosa fare per rendere Milano più bella. Il “dito” di Cattelan era un’altra cosa, obbediva a un altro criterio, che è lo stesso da cui nasce il Museo del Novecento. Bisogna scegliere se rassegnarsi alle importazioni e agli arredi o dedicarsi anima e corpo al compito faticoso di fare di Milano il soggetto della propria bellezza. Come è sempre stata.



A questo proposito, mi pare necessario fare una precisazione su una parola che in questo periodo è stata ed è usata in modo eccessivo e talvolta ambiguo: la parola “eccellenza”. Secondo me spesso se ne parla in termini gestionali, di pura programmazione, senza domandarsi che cos’è. Invece bisogna domandarselo perché l’eccellenza è il frutto di qualcos’altro, e di per sé può esserci e non esserci. Ma è questo “qualcos’altro” che va tutelato, e va tutelato non perché può produrre eccellenze, ma come valore in sé.

Il grande scrittore Eugenio Corti ripete spesso che la cultura lombarda del lavoro è una cultura speciale, e anche se dagli anni Ottanta in avanti si è imposta a Milano una cultura diversa, di stampo americano – più competitiva e feroce – ciò nonostante Milano conserva i segni della sua originalità.

La cultura milanese e lombarda di cui parla Corti identifica il valore prodotto dal lavoro come qualcosa che non riguarda, in prima istanza, il mercato. Nella cultura della nostra terra, non è il mercato a stabilire il valore di qualcosa, per esempio, di una porta, e nemmeno la quantità di lavoro impiegato per produrla, bensì un principio intrinseco: occorre, cioè, che la porta sia fatta come dev’essere fatta.

È successo a me qualche anno fa. Un falegname, dopo aver preso tutte le misure e aver fatto la porta della mia cucina, è venuto a montarla. Era un falegname milanese, e a montarla ci ha messo quasi una giornata. Che spreco di tempo!, pensavo. Altri impiegavano mezz’ora al massimo.

Ma lui mi disse che il lavoro andava ben fatto, e che io avrei pagato solo il prezzo stabilito, non le ore impiegate per montarla al meglio. Mi disse anche che così gli avevano insegnato suo padre e suo nonno, che erano stati falegnami prima di lui.
Milano è una città in cui un panettiere che conosco, un panettiere molto alla moda, dove le “sciure” vanno a comprare il pane magari attraversando la città, ogni mattina produce anche un quintale di michette (i panini che ormai nelle panetterie non si trovano più) per regalarle alle opere di carità e di assistenza della zona. Consegna a domicilio. E quelle michette sono fatte a regola d’arte, esattamente come il pane delle “sciure”.

Ora, nonostante l’invasione di modelli estranei, da noi questa cultura rimane. Non solo. Ci sono aziende e imprese modernissime, con solidi fatturati, che non rinunciano a una qualità che non è solo quella del prodotto, ma anche quella del lavoro stesso, così da ripetere nelle condizioni moderne quell’umanità che tutti hanno sempre riconosciuto al lavoro lombardo.

Se non proteggiamo innanzitutto questo aspetto del lavoro, proteggere le “eccellenze” risulterà inutile e fuorviante. A me non importa un fico secco che Milano produca – tanto per fare un esempio – uno straordinario violinista che però non è in grado di capire la differenza tra Mozart e i Coldplay, e suona indifferentemente l’uno e gli altri, come se suonare il violino fosse un esercizio ginnico. Preferisco di gran lunga avere insegnanti che educano i giovani musicisti a una comprensione profonda e articolata del fatto musicale: se poi fioriranno le eccellenze, tanto meglio. Ma l’eccellenza non è una cosa neutra!

Il mio amico professor Mauro Magatti, eminente sociologo, dirige, per la Fondazione Sturzo, un “Archivio della Generatività”. Con la parola “generatività”, Magatti intende lo sviluppo di quello che ho tentato di dire in queste righe. Se affrontiamo le sfide del mercato restandocene inchiodati al modo ordinario di intenderlo, saremo presto spazzati via: la Cina, per esempio, è più ricca, più potente di noi, e produce eccellenze a velocità industriale. Cento, mille violinisti, e tutti molto, ma molto più bravi del nostro.

Perciò la strada non può essere questa. Occorre invece lavorare insieme, senza tagliare le radici con quell’abbondanza di umanità (che i cinesi non hanno, e nemmeno gli americani) che si esprime nel valore del lavoro così come lo racconta Eugenio Corti, e rinnovando la bellezza di una tradizione che non ha mai chiesto a nessuno di tornare al passato, ma solo di salvaguardare il valore che porta, affinché il lavoro non produca soltanto cose, ma sia anche capace di rigenerare in nuove forme il valore da cui nasce.

Questa capacità di generare valore è un bene che nessuno ci può portare via, e che può avere un’utilità inimmaginabile per il mondo. A me interessano le eccellenze solo se sono figlie di questa cultura. Il resto è ginnastica.