Parlare del Teatro de gli Incamminati oggi e del suo rapporto con Milano non è possibile senza riandare alle sue origini e all’incontro tra il genio artistico e umano di Giovanni Testori e l’ingenua baldanza di un gruppo di giovani universitari scapestrati figli di don Giussani.

«Decidemmo allora di andare a conoscere Giovanni Testori. Ripensandoci a distanza di trent’anni colpisce la spregiudicatezza con la quale ci muovemmo a compiere un’azione così insolita: dei primi quattro che andarono a trovarlo, nessuno aveva particolari interessi letterari, artistici o teatrali. Ma quella spregiudicatezza derivava dal rapporto straordinario con un uomo che in quegli anni aveva deciso di coinvolgersi con noi ragazzi in modo totale: don Luigi Giussani.
Pur essendo ragazzi qualunque, noi non eravamo – ora lo capisco – “ragazzi qualunque”. Eravamo ragazzi con un amico come don Giussani, capace di comunicarci un’attrattiva e una passione senza paragoni non solo verso la fede cristiana, ma verso la realtà tutta.
Dico queste cose perché comprendere “Gli Incamminati” senza di esse sarebbe impossibile: tutto, infatti, nasce da lì, da quei giorni, da quei rapporti, dalla prospettiva che si spalancò allora. I nomi di questi quattro ragazzi sono: Roberto Fontolan, Antonio Intiglietta, Antonio Simone e Gigio Bazoli».

(da “25 volte Incamminati” di Luca Doninelli)



Il frutto di questo primo incontro furono, grazie al lavoro di Emanuele Banterle, tre spettacoli, “Conversazione con la morte”, “Interrogatorio a Maria” e “Factum est”; gli Incamminati come compagnia ancora non esistevano. Fu l’opportunità di rappresentare “Post Hamlet”, in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale a Milano, che fece nascere la compagnia de “Gli Incamminati”.
Il 28 aprile 1983 durante la conferenza stampa di presentazione, al ristorante “Rigolo” di Largo Treves, Testori disse: «…si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre accademia d’arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci quanto l’indicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell’oggi…
…Lungi dal produrre sogni e illusioni, il teatro deve perciò aiutarci a liberarci di ogni fatua rappresentazione dell’esistenza. Non esiste libertà se non nell’adesione totale al destino: è di questo che il teatro parla, essenzialmente».



Questa, sintetizzata da Testori, è la specificità culturale che ancor oggi contraddistingue il lavoro del Teatro de gli Incamminati; una identità che ha sempre motivato le scelte artistiche e le decisioni relative agli spettacoli da produrre; una identità che ha reso e rende riconoscibile le produzioni degli Incamminati al pubblico teatrale.
Identità che si rafforzò nel successivo incontro tra Testori e Branciaroli dove si approfondì ancor più l’idea testoriana di teatro: «la mia utopia teatrale consiste nel far sì che ogni azione scenica sia ritualmente irripetibile, far si che ogni spettacolo sia un unicum, ma chi e come potrebbe vivere il suo lavoro sulla scena per un’unica rappresentazione, per un solo “debutto”, usando il gergo corrente?».
Branciaroli portò fino in fondo questa intuizione con tre straordinari spettacoli “In Exitu”, “Verbò” e “Sfaust”; la portò così tanto alle estreme conseguenze, così come nel rapporto con Giovanni, che, dopo la morte di Testori, non volle più rappresentarli.



Ma veniamo ai giorni nostri dove Gli Incamminati sono riconosciuti, dal MIBAC, come la prima compagnia di prosa italiana. La presenza e le scelte artistiche del Teatro de gli Incamminati vivono ancor oggi profondamente delle loro origini; della continua scoperta, spettacolo dopo spettacolo, pur tra gli innumerevoli condizionamenti del mercato teatrale, della forma teatrale dell’oggi e dell’irrequietezza dei suoi artisti, Branciaroli in primis.

“Finale di Partita”, “Vita di Galileo” e “Don Chisciotte” sono gli ultimi successi che dimostrano la possibilità di una presenza culturale capace di rileggere e portare in scena grandi testi, di autori a noi contemporanei, a partire e in nome di una propria identità.
Franco Branciaroli, in una recente intervista a IlSussidiario.net, a proposito della sua idea di cultura ha affermato: «A mio parere, la cultura è in contrapposizione con il sapere. La vera cultura è infatti una manifestazione della vita, dell’esistenza. Riguarda tutto, non solo le forme “alte” o “superiori”, ma anche come si fa il pane e come si produce il vino. La mia ipotesi di partenza è che la cultura sia stata distrutta dal sapere e che ciò che noi oggi chiamiamo “cultura” non sia altro che l’esposizione museale di un settore della cultura umana, come ad esempio le arti del passato».

Per questo il nostro contributo al bene comune, al bene di Milano, continua e continuerà ad essere la proposta del teatro come quella forma di conoscenza che permette un rapporto di esperienza unico, irripetibile tra spettatore e drammaturgo, non dimenticando mai che “è del destino che il teatro parla, essenzialmente”.

E non posso non concludere con le parole di Luca Doninelli che così mirabilmente, al termine del suo libro “25 volte Incamminati”, definisce la condizione del Teatro de gli Incamminati oggi: «Nel cammino di una compagnia teatrale – che non ha un “bene culturale” già fissato da difendere, poiché il suo “bene culturale” cioincide con il suo stesso dna, e il dna si palesa nel tempo e nel cambiamento – i sacrifici si sono sempre belli e luminosi. Nella storia degli Incamminati, come detto, c’è stata una consegna ed è in ordine a quella consegna che i sacrifici hanno acquistato senso, ragionevolezza e bellezza.
C’è chi si batte per un bene proprio, per un proprio pensiero, per una propria idea – insomma, per una sua proprietà. Il patrimonio degli Incamminati, viceversa, sta tutto in qualcosa che non appartiene loro, in qualcosa che hanno ricevuto in eredità, in qualcosa che viene da lontano. Tutto quello che cercano di dire è qualcosa che hanno a loro volta imparato. Ma proprio questo li rende particolarmente incontrollabili, difficili da addomesticare, poco omologabili. Il loro lavoro non si presenta con i tratti rassicuranti di uno stile definito, di un gusto, di una poetica, ma con quelli – più difficili – di un amore che, per esistere, ha bisogno di un “sì” quotidiano».