In ciascuna epoca della sua storia, una città sviluppa una certa idea dell’uomo e la mette in atto nel modo stesso in cui progetta e costruisce edifici, quartieri, vie e piazze. Basta tenere gli occhi aperti e lo si capisce facilmente.

Ogni epoca ha la sua idea di cosa significhi “abitare”, e questa idea abbraccia tutto l’insieme variegato delle persone che abitano la città (rifiuto per principio il termine biopolitico “popolazione”), comprese le sue classi sociali e le sue fasce di età.



Le fasce cosiddette deboli costituiscono da questo punto di vista un buon indicatore. Per ogni epoca possiamo chiederci: come sono stati trattati in quel periodo i poveri?, i bambini?, gli anziani? Bisognerà fare naturalmente i conti con i pregiudizi che ogni periodo porta con sé, ma alla fine, fatte tutte le tare del caso, arriveremo a capire quando l’uomo ha goduto di buona considerazione e quando no.



Pensiamo a Milano e a uno dei problemi più importanti che si trova ad affrontare, lei come tutte le città occidentali: quello delle persone anziane, il cui numero in percentuale, come tutti sanno, è molto alto. Cosa pensa Milano degli anziani? Come li tratta? E, viceversa: come gli anziani – intesi come soggetto – trattano la città? Chi è in debito e chi in credito?

Distinguo a questo proposito una dimensione pubblica della questione e una dimensione privata. Quella pubblica riguarda le case di riposo (la zona in cui abito ne conta diverse) ma soprattutto – ciò che m’interessa qui – riguarda la progettazione dei quartieri cittadini.



Progettare un quartiere significa prevedere una grande quantità di variabili. La mia domanda è: chi oggi progetta un quartiere a Milano che cosa fa per le persone anziane?

Girando per la città e visitando i diversi quartieri ho potuto assistere a uno strappo (databile secondo me alla fine degli anni Sessanta, ma questa è solo la mia opinione) tra un tempo in cui l’uomo concreto era al centro dell’attenzione di architetti e urbanisti e un altro tempo in cui l’uomo è completamente scomparso nella sua realtà fisica per lasciar posto a un’immagine astratta, o utopica.

Si ha l’impressione che, da un certo momento in avanti, chi pensava la città lo facesse tenendo davanti la sua piantina e tracciando righe senza tener conto della vita che queste righe potevano favorire o distruggere.

Ci sono a Milano quartieri, sorti tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, e altri quartieri ancora più vecchi, in cui i fattori umani venivano tenuti in conto. Magari molte soluzioni erano ingenue o risentivano di un certo modo oggi obsoleto di considerare i bisogni di un bambino o di un anziano. Però c’era fiducia nell’uomo, nella sua capacità di costruire una convivenza dignitosa. Per esempio certi complessi residenziali popolari, oggi in parte ristrutturati, composti da piccole palazzine, composte da un numero molto  limitato di famiglie, presentano i tratti di quella tipica discrezione milanese, che favorisce le dinamiche umane senza però pretendere di determinarle.

 

Nei progetti successivi si è persa la traccia di questa attenzione piena di civiltà. Esistono quartieri a Milano, anche di recente costruzione, in cui essere anziano significa, al massimo, scendere con o senza badante nel parchetto adiacente, camminare nei vialetti, sedere sulle panchine, incontrarsi per le solite tristi conversazioni (“come va?” “eh, si tira avanti”). In pratica: aspettare la morte. Caro anziano, mentre aspetti di crepare puoi andare su e giù per i vialetti, incontrare altri anziani che come te aspettano di crepare e conversare un po’ con loro…

 

Intanto nel centro della città i cinema chiudono, quelli di quartiere non esistono più da tempo e così, se per caso a un anziano saltasse in mente, anziché di sedersi su una panchina, di andare a vedersi un film – be’, questo non lo può più fare. Per il cine ci sono i multiplex: luoghi poco adatti per un ottantenne.

 

Questa incapacità di mettersi al servizio dell’uomo ha una storia lunga e non è facile invertire la rotta.

Se la città fa poco per gli anziani, in compenso gli anziani possono fare – e fanno – molto per la città. La bilancia pende nettamente dalla loro parte.

Siamo così passati alla dimensione privata del problema. Non voglio qui parlare delle badanti e dei badanti, che costituiscono un mondo a sé – un mondo oltretutto molto affascinante, pieno di storie bellissime e di esperienze uniche (basti pensare al fatto che il lavoro di una badante consiste perlopiù nell’accompagnare una persona alla morte, e poi un’altra ecc.). Voglio piuttosto sottolineare la grande importanza degli anziani nella vita della nostra città.

 

Lasciando stare ciò che significa un nonno nella vita di un nipote (anche quando il nipote è cresciuto), pensiamo a quanta integrazione sociale fanno gli anziani, che sono i maggiori abitatori dei quartieri, visto che le persone più giovani durante la giornata sono assenti per lavoro o per studio.

 

Penso ai mercati rionali, dove uno straniero trova soprattutto persone anziane con cui conversare; penso ai rapporti di vicinato che grazie agli anziani si stringono nei palazzi; penso agli anziani della bocciofila sotto casa mia, ai quali si aggregano senza troppe cerimonie altri anziani provenienti da altri paesi. L’integrazione degli stranieri nel tessuto cittadino passa in misura fondamentale attraverso gli anziani.

 

Domando scusa se non ho troppa considerazione per iniziative come l’Università per la Terza Età, che somiglia un po’ ai vialetti di cui sopra: come se la società milanese e soprattutto chi governa la città non sapesse immaginare per loro altro che una serie di aree di parcheggio, senza tenere conto del fatto che un anziano è un uomo e perciò un soggetto: pensante, agente, desiderante.

 

In un contesto urbano come quello postmoderno, dove la frammentazione sociale, la polverizzazione delle domande e delle offerte e il proliferare dei non-luoghi sembrano destinati a soffocare ogni resistente tentativo di produrre aggregazione, luoghi, incontri, insomma di “fare società”, bisognerebbe – e non è solo un problema di chi amministra ma di tutti noi – valorizzare al massimo chiunque si muova nella direzione opposta, recuperando una cultura umanistica che nella città esiste ma della quale in troppi ci siamo dimenticati. E gli anziani costituiscono una forza resistente (al degrado dei rapporti) davvero essenziale. Abbiamo bisogno di loro, della loro soggettività, della qualità del loro agire nella società.

 

Ma questo richiede fatica, esercizio e sacrificio (anche di soldi). È molto più vantaggioso infatti, soprattutto per chi gestisce grandi interessi, dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo, evitando così le complicazioni che la vita – che è così poco programmabile – impone. Dimenticare la vita rende più facile farsi gli affari propri.