«Costruire luoghi di vita: un impegno per ognuno, un bene di tutti». È il titolo del volantino che la Compagnia delle Opere di Milano ha dedicato alle prossime elezioni amministrative, quelle che si terranno in molte città italiane il 15 e 16 maggio prossimi. Occorre «un risveglio della politica come servizio alla “res publica”, dove la libertà della persona è il criterio ultimo di ogni azione». «Occorre riscoprire la politica come comunità di destino» dice a ilsussidiario.net l’economista Giulio Sapelli. La politica deve ripartire «da un rapporto popolare con chi nella società non ha smesso di costruire», come dice il volantino, ma non dobbiamo farci illusioni, secondo Sapelli, perché essa non ha ancora concluso la sua traversata nel deserto. Anzi, forse l’ha iniziata proprio adesso.



Sapelli, «senza un popolo responsabile capace di rinnovare la propria identità anche le città decadono» scrive la Cdo. È la città che fa il popolo, o il popolo che fa la città?

Un tempo era il popolo che faceva le città. Poi, con l’industrializzazione, le cose sono cambiate e il popolo migrante in cerca di lavoro ha investito le città con esiti differenti. Milano, però, da questo punto di vista fa un po’ eccezione rispetto alle altre città italiane. Torino ha visto grandi ondate migratorie attratte da un solo polo, quello della grande industria automobilistica, e il nuovo popolo è stato in larga misura passivo. Invece il popolo milanese è assai più attivo e articolato, perché l’attrazione si è esercitata sugli immigrati trasformandoli e facendoli diventare classe media. Dunque non solo il popolo ha potentemente contribuito alla costruzione della città, ma Milano stessa ha creato un «suo» popolo.



Il punto più alto?

Le amministrazioni socialiste del primissimo dopoguerra, quelle che hanno governato la città prima dell’avvento del fascismo. Nel secondo dopoguerra non si può dimenticare Antonio Greppi. Per venire ai giorni più vicini a noi, la Milano di Carlo Tognoli. Egli è stato forse l’ultimo capace di instaurare un rapporto simpatetico con la città, a coinvolgere, appunto, il popolo.

Come può la politica, nella crisi che stiamo vivendo, ricostituire un rapporto popolare con la città?

La politica tornerà ad essere rispettosa delle esigenze del popolo quando la farà il popolo. Oggi non è più così perché la politica è diventata un mestiere. Mio padre, operaio torinese, si indignava perché i consiglieri comunali di Torino avevano – lui diceva – grandi, eccessivi privilegi: la tessera per accedere allo stadio e per circolare gratis sul tram. Oggi un consigliere comunale prende 2mila euro netti. Viene pagato addirittura il consigliere di circoscrizione. In Italia abbiamo dalle 700 alle 800mila persone stipendiate dalla politica.



Questo non è populismo?

Forse, se ci fermassimo qui. Ma questi sono gli effetti di una crisi che dipende da cause più profonde. La verità è che la politica ha smesso di essere comunità di destino. E non vedo facili vie d’uscita. Temo che dovremo andare ancor più giù, altrimenti non ci sarà la catarsi che serve al sistema per purificarsi. Solo un’ondata di astensionismo ci può salvare. Quando avremo il 70-80 percento di persone che non votano più, e la classe politica sarà completamente delegittimata, allora forse qualcuno si chiederà se abbiamo sbagliato qualcosa…

Nel volantino si suggerisce che il compito della politica sia quello di «riconoscere e valorizzare il tessuto di opere e di persone che fanno la ricchezza di Milano». Investendo sul loro desiderio di costruire.

È così. Queste opere ci sono e Milano è un esempio unico al mondo. Penso al volontariato, al non profit, alla molteplicità di esperienze associative che segnano ancora il presente della città. La politica, sia di destra che di sinistra, deve tornare a rappresentare questi soggetti. Un dato è certo: nonostante la crisi morale che ha investito la politica, questi soggetti sono sopravvissuti. Se i politici vogliono rilegittimarsi, devono tornare a difendere la società. Si può farlo solo stando in mezzo alla gente.

Secondo lei il nuovo Pgt è coerente con una visione della città più centrata sulla persona?

Non sono un esperto in questo campo, ma mi pare che sia una cosa buona, un passo avanti per risolvere i problemi di Milano. Ora si tratta di farlo funzionare, evitando operazioni facilmente propagandistiche.

Alla fine del volantino la Cdo snocciola tre punti che ritiene prioritari: «un rilancio sussidiario della città accogliente», «la città della cultura», «Milano al lavoro». Che ne pensa?

Sono tre punti importantissimi. Il tema dell’accoglienza, al quale si sono dimostrati così sensibili i vescovi lombardi, è di grande attualità. Occorre però che ci diciamo le cose con franchezza: in nessun paese al mondo si prendono tutti. Anzi, ci sono paesi molto civili nei quali non si entra se non si sa la lingua del paese ospitante. Alla cultura dell’accoglienza Milano non deve rinunciare, ma la politica deve trovare soluzioni. Non stiamo parlando di valori non negoziabili, ma di scelte che riguardano il presente e il futuro della città; scelte politiche e dunque negoziabilissime. Se non si trova un equilibrio la xenofobia è dietro l’angolo.

Milano città della cultura?

Occorre creare una città capace di attrarre i giovani. Io ho lanciato la proposta di creare a Milano una grande casa in cui ospitare i giovani artisti, un po’ come la Maison Rouge a Parigi: uno spazio dove possono esporre le loro opere, dalla danza all’arte e alla musica. La mostra Sensation, all’inizio degli anni 80, fece rinascere Londra, suscitando dibattiti assai più interessanti di quelli creati da un dito di quattro metri piazzato davanti alla Borsa. Milano deve continuare sulla strada della moda e del Salone del mobile.

Ultimo punto: il lavoro.

Dobbiamo dare uno sbocco ai precari. Mi rendo conto che un’amministrazione comunale non può fare molto, ma la prima cosa è tenere gli occhi aperti sulle nuove, tremende diseguaglianze. Milano è la città dove l’1 percento della popolazione possiede il 40 percento della ricchezza. Se Milano va avanti su questa strada, ai suoi giovani resterà solo la disperazione. E per la città sarebbe davvero finita.