Passare da una logica di potere basata sulle fedeltà politiche, alla valorizzazione delle competenze e dei talenti attraverso il coinvolgimento dei privati nella gestione delle aziende pubbliche. E’ la ricetta dell’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, per «ripartire da un rapporto popolare con la società e con chi nella società, nonostante la fatica di questo periodo, non ha smesso di costruire rispondendo al desiderio di bellezza, giustizia e verità propri del cuore di ogni persona». L’ex primo cittadino, oggi europarlamentare del Partito Popolare Europeo, spiega a partire dalla sua esperienza di amministratore come è possibile concretizzare quanto affermato nel volantino della Compagnia delle Opere, dal titolo «Costruire luoghi di vita».



Albertini, partiamo dalla sua reazione a caldo leggendo il volantino della Cdo…

Le attività utili alla collettività, dai servizi sociali alla cultura e alle infrastrutture, non sono appannaggio solo del pubblico, ma devono essere valorizzate tutte quelle capacità sia di costruzione, sia di proposte di partecipazione che vengono dalla società civile e dalla comunità cittadina. Sotto questo profilo, condivido quanto affermato nel volantino, e posso anche dire che nei miei nove anni come sindaco, ho cercato il più possibile di valorizzare queste competenze e capacità della comunità cittadina, a tutti i livelli. Coinvolgendo per esempio le grandi imprese attraverso il project financing nella realizzazione delle grandi infrastrutture dei trasporti. Inoltre sono stato il primo presidente della Fondazione Scala, nel momento in cui nell’ente pubblico sono entrate le grandi imprese nazionali che si sono identificate nel progetto di qualità del marchio Scala. E così è stato per tutti gli interventi urbanistici: non c’è un’area di Milano in cui il privato e il pubblico non abbiano collaborato nel costruire una nuova città. Tutti i grattacieli, a cominciare dal palazzo Lombardia appena inaugurato, sono il frutto di questa collaborazione, dove il pubblico ha fornito le regole e svolto il ruolo di regia. Favorendo nello stesso tempo il legittimo desiderio di contribuire al bene comune e affermare la propria dimensione economica proprio di tutti i soggetti privati, grandi e piccoli: dai poteri forti alle cooperative, fino alle realtà minori.



Nella sua esperienza di sindaco di Milano, che cosa l’ha aiutata a tenere presenti quartieri e soggetti sociali, e non soltanto le istanze provenienti dai vertici dei partiti di maggioranza?

Il fatto di essere un imprenditore. All’epoca Romiti e Confalonieri mi avevano segnalato a Berlusconi e lui mi convinse ad accettare un ruolo che non avevo mai immaginato di dover assumere, con questa finalità: portare in politica i valori dell’imprenditorialità. I miei nove anni da sindaco sono stati quindi tutti all’insegna dell’imprenditorialità al governo. Ciò che mi ha aiutato inoltre è stata l’appartenenza a un sistema di valori che hanno premiato questo orientamento. Poi io mi sono anche scontrato con i partiti politici, anche con quelli della mia coalizione. Perché l’orientamento della politica non è quasi mai di premiare la professionalità e la lealtà verso le istituzioni. Spesso la politica vuole solo potere per sé. Per le società controllate dal Comune, i partiti tendono cioè a proporre la nomina di fiduciari, piuttosto che di persone competenti o capaci. Erano quindi esponenti che avrebbero poi risposto e corrisposto alle istanze di chi li aveva nominati. Questo è stato lo scontro di nove anni, perché io avevo trovato situazioni di imprese comunali mal gestite, con esuberi di personale, quasi tutte in perdita. Compresa l’Aem, che in seguito è riuscita ad acquisire Edison e a quotarsi in Borsa. Quando ho rilevato Atm aveva 154 miliardi di lire di deficit, e l’ho lasciata con 78,6 milioni di euro di utile. Il criterio che mi guidava era quindi quello di fare emergere i valori della società, anche in contrasto con i rapporti con il potere dei partiti all’interno delle istituzioni.



In che modo è possibile distinguere tra «il tessuto di opere e di persone che fanno la ricchezza di Milano» da una parte, e le corporazioni dall’altra?

Attraverso il discernimento della responsabilità di governo. Nel caso della «politica professionista», che ha come centro il ruolo del politico, l’obiettivo è il mantenimento del potere, il proseguimento della sua attività e la crescita della sua funzione. In questo modo si finisce per dare molta attenzione alla categoria organizzata, pericolosa e influente. Nel momento in cui il governo delle città è invece caratterizzato dalla «politica professionale», che pone al centro i bisogni della comunità, è inevitabile una contrapposizione con la minoranza organizzata spesso di ostacolo al bene comune.

Sul piano concreto, come si differenziano politica «professionista» e «professionale»?

Penso per esempio alla privatizzazione delle farmacie comunali dopo che un grande gruppo industriale aveva offerto una cifra pari a dieci volte tanto. Lo stesso vale per la vendita della centrale del latte a Granarolo, che aveva formulato l’offerta più vantaggiosa per la città. Ciò che ho fatto è andato quindi nella direzione di un riequilibrio tra il rapporto tra l’interesse di un piccolo gruppo e il bene comune. Un altro esempio è la battaglia con i vigili urbani, diventati emblema della corporazione, e che vivevano un ruolo che non era quello del servizio alla città. Dopo 18 mesi di scioperi, abbiamo riportato la polizia locale nelle strade e inventato il vigile di quartiere, riducendo gli omicidi del 33% nell’arco di due anni.

Tra le sue scelte c’è stata anche quella di aumentare le licenze per i taxi…

Una ricerca dell’epoca aveva stabilito che, in proporzione al numero di abitanti di Milano, erano necessarie 1.938 nuove licenze. Io ne avevo chiesto 500, alla fine sono riuscito a rilasciarne 288. Però pur nell’esiguità di questi numeri, è stato un esempio del conflitto tra chi rappresentava la comunità e una categoria potentissima.

Ritiene che chi amministra Milano debba essere più attento al territorio e soprattutto ai quartieri periferici?

Sì, ma lo stiamo già facendo perché avviato la trasformazione delle aree industriali dismesse, veri e propri deserti urbani, in parte integrante della città a tutti gli effetti. Basta citare Bovisa e Santa Giulia, che si trovano in aree periferiche, ma dovranno diventare centri, perché il concetto che ha ispirato queste rigenerazioni urbanistiche è stata la città policentrica.

 

(Pietro Vernizzi)