Io la chiamo la Fascia Oscura di Milano. E’ quella parte meridionale della città compresa, per intenderci, tra la circonvallazione 90-91 (viale Tibaldi, Liguria, Cassala ecc.) e la linea 95 (Cermenate, Antonini, Quaranta ecc.).

In questo settore di città piuttosto disordinato si svelano molti aspetti che appartengono, in realtà, a tutta Milano, ma che qui si vedono meglio che altrove.



La chiamo Fascia Oscura perché in essa – forse a causa della ferrovia che corre lungo i viali di circonvallazione – non si ravvisa nessun progetto urbanistico dominante, ma soltanto piccoli progetti ammassati spesso uno all’altro, ma con numerosi spazi vuoti.

Girare da queste parti è divertente perché ogni strada, si può dire, comincia in un modo e finisce in un’altro, ed è difficile definirne la fisionomia. Ogni lotto sembra essersi sviluppato ignorando completamente quelli vicini.



Qui, a differenza di New York (dove è ravvisabile qua e là un tipo di disordine non molto dissimile), a complicare le cose ci si mette la storia con i suoi lasciti, i suoi luoghi notevoli ma anche i suoi detriti.

I canali di derivazione (per es. il Lambro Meridionale) e i fossi di risorgiva (come la Vettabbia) non obbediscono più alla consegna leonardesca della rettilineità o della circolarità e se ne vanno a piede libero obbligando la città a notevoli capriole urbanistiche. Lungo le loro rive si trovano i resti di una Milano più vecchia di quella circostante: vecchie fabbriche trasformate in monumenti archeologici, cascine ristrutturate, vecchi quartieri di paese minacciati da nuovi complessi modernissimi, nati sulle ceneri di gloriosi ma defunti complessi industriali.



Ci sono punti in cui il mix più disordinato che si possa immaginare ha prodotto effetti che aspettano solo un urbanista capace di ripensarli secondo un criterio unitario. Milano ha ormai bisogno più di urbanisti che nemmeno di architetti, perché ciò che la sua crescita ha prodotto ha una valenza storica che ha bisogno di una valorizzazione adeguata in senso estetico. I grattacieli prodotti dagli archistar non possono più bastare: a Milano l’epoca degli archistar è finita. Occorre un pensiero più ampio.

Tra le vie milanesi degne di essere valorizzate io metto via dei Fontanili, che percorre il quartiere di Morivione. Affiancata da quartieri malfamati, cascinali, vecchi palazzi milanesi, magazzini in rovina, ex-aree riconvertite e nuove di zecca, da un parco e dalla Vettabbia, via dei Fontanili – filiforme e sghemba com’è – è con ogni evidenza una vecchia strada di campagna poco utile allo smaltimento del traffico e situata perciò sul “retro” dei quartieri che attraversa. Questo suo correre alle spalle di Milano – che già volta le spalle alle sue strade (Milano è una città di “dietri” di case e palazzi) – ci permette di scattare, paradossalmente, un’istantanea dritta della città.

La via comincia e finisce sul luogo di due delitti stranamente simili tra loro, anche se commessi il primo pochi mesi fa e il secondo intorno al ‘300. Due ammazzamenti, stessa tecnica: pugni e calci. La prima vittima era un tassista, Luca Massari, che passando per largo Caccia Dominioni investì un cagnolino, un cocker sfuggito alla sua padrona. Massari uscì per chiedere scusa ma si trovò investito dall’ira furibonda del fidanzato della padrona del cane, della di lui sorella e del fidanzato della sorella che infierirono su di lui fino a ridurlo in fin di vita.

Tutti ricordano questa storia. Massari morì un mese dopo. Io sono andato sul luogo del massacro, che per me è una specie di centro di Milano. C’è una croce piantata nell’erba, fatta con il legno di uno zoccoletto battiscopa. Lo ricorda la mamma. Intorno, qualche lumino, qualche fiore.

E’ una storia straziante. Mi domando chi fosse questo poveretto, che a 45 anni si era da poco fidanzato, che strano appuntamento fu quello in largo Caccia Dominioni. Mi domando chi erano, chi sono i suoi assassini: da quale tunnel escono, da quale serie di fallimenti. Le mie sono domande semplici: dove sono cresciuti, che scuole hanno frequentato, se hanno mai amato qualcuno, dove lavoravano. Chi inferse il colpo fatale non si ispirò alla realtà ma al cinema violento, a certi colpi di wrestling. Ma l’odio, chi glielo mise dentro?

E poco importa se l’odio è illegale oppure legittimato, come quello che, sull’altro capo di via dei Fontanili, portò nel XIV secolo alla morte di un brigante molto amato da quelli della zona, perché rubava ai ricchi per dare ai poveri: una specie di Robin Hood della Vettabbia, al quale, in una notte terribile, le guardie tesero un agguato, e anche lì fu cinema di serie B, wrestling, K1.

E anche lì, sul luogo della morte, nel tempo nacque qualcosa che prese la forma di una cappella con una statua azzurra della Madonna: una cappella sempre ornata di fiori e lumini, e dedicata ai “prodi di Morivione”. Il racconto vuole che la cappella sia stata eretta per chiedere a Maria altri briganti gentiluomini, amici della povera gente.

Da notare: nessuno ha mai chiesto alla Madonna il ravvedimento dei briganti, ma solo la loro amicizia con i poveri. Personalmente, trovo che già questa totale mancanza di moralismo sia un motivo sufficiente per essere cristiani e cattolici. Si può pregare per l’anima, ma è meglio cominciare dal corpo, anche perché sono in pochi a sapere veramente che cos’è l’anima.

Il brigante cui è dedicata la cappella in via dei Fontanili si chiamava Livione, da cui prende nome il quartiere: “Morivione”, ossia: “dove morì Livione”.

Pochi a Milano conoscono via dei Fontanili. Eppure quanta Milano nel suo esile percorso!

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