Come ho detto già più volte, a mio avviso un sindaco di Milano deve avere soprattutto una caratteristica. Non ha importanza se sia o meno un buon politico: l’importante è che ami davvero la nostra città, e che questo amore trovi uno staff capace, almeno in parte, di dargli forma e continuità.
Ma non sono le parole a esprimere questo amore. In questi giorni Milano è stata investita come da un uragano dalle chiacchiere dei politici – anche di quelli, come Nichi Vendola o Rosi Bindi, che di Milano non sanno quasi niente.
Questi politici cosa possono dare alla città? Discorsi politici, ecco cosa possono dare. Mentalità politica. Calcoli. Si condanna l’inquinamento che certe lobbies di potere avrebbero prodotto nella pubblica amministrazione senza pensare all’inquinamento prodotto da discorsi nei quali Milano resta, in ogni caso, soltanto un esempio, un punto dentro una strategia complessiva, un laboratorio per l’esperimento nazionale, un tassello di un mosaico, il grande mosaico del potere. È su altro, a mio avviso, che si misura il grado di inquinamento o di non-inquinamento nella prassi politica di una città.
Tornando al tema centrale, quello dell’amore che un sindaco non può non avere per questa città, mi chiedo: cosa significa amare Milano? Usiamo, per capirci, l’immagine del genitore e del figlio. È facile illuderci di amare i nostri figli solo perché diamo loro quello che noi pensiamo sia il meglio per loro. È facile ritagliarsi il ruolo di genitori provvidenti – capaci magari di diventare violenti quando le cose cominciano a non funzionare.
Chi crede, o meglio vuole farci credere, che il problema di Milano sia un problema semplicemente politico, e perciò sciorina ricette vincenti (almeno fino al momento in cui non devono fare i conti con la realtà), è simile ai genitori sopra descritti.
Questo non è amare la città.
Un’altra cosa sono i genitori che cercano, spesso con fatica e a costo di grandi sacrifici (anche in termini di orgoglio), di conoscere davvero i loro figli, accettando i propri limiti e dando ai ragazzi, per quello che possono, una mano a costruire il proprio futuro. Un figlio ha sempre bisogno di essere accompagnato, anche se spesso questo bisogno si esprime nella ribellione, nell’apparente ostilità. Il problema è: fin dove sei disposto a spenderti per tuo figlio? Quanta diversità sei disposto ad accettare?



Lo stesso vale per il governo di una città, e specialmente di una città come Milano. L’amore richiede un atto di vera conoscenza, bisogna sapere chi sono i milanesi oggi, cosa vogliono, cosa stanno costruendo. Bisogna capire come è stata fatta Milano e come continua ad essere fatta, e rendere un po’ di giustizia alla sua diversità rispetto a tutte le altre città del mondo.
Se, per gioco, ci chiediamo chi ha edificato le diverse città, chi ha dato loro la forma che hanno, la risposta più frequente sarebbe: il potere. Dovunque – parlo delle città più belle e importanti – incontriamo piani urbanistici che riflettono la fisionomia della classe dirigente che l’ha realizzata: una Signoria rinascimentale (Firenze), una classe militare (Torino), un potere illuminato (Parigi). Perfino Roma c’impressiona con la potenza della sua immensa storia di potere, papato compreso. Dovunque dominano, specialmente in Italia, e più e più andando verso sud, i palazzi gentilizi e le insegne del comando.
Milano è diversa. Le insegne del comando non l’hanno mai definita. Nessuna città somiglia meno a una capitale di Milano: già Parma lo è di più, per non parlare di Napoli, Palermo, Venezia… La ragione è che Milano non è stata fatta dai potenti, o dai militari, o dai sovrani più o meno illuminati: Milano è stata fatta dai milanesi.
Allora, se un sindaco e il suo staff vogliono davvero amare la città, devono anche accettare – per parafrasare il titolo di un bel film – le conseguenze dell’amore. Amare Milano significa accettarla così com’è stata voluta e costruita, com’è stata raccontata e come si racconta tuttora: la più multirazziale e multiculturale tra tutte le città italiane. Qui, come sottolinea qualcuno, la mescolanza è sempre stata di casa, i milanesi puri quasi non esistono, i padri della città sono nati perlopiù altrove.
Perciò essere milanesi non significa essere nati qui. Significa qualcosa di molto più profondo: significa possedere quella che ho chiamato inquietudine fattiva, significa protagonismo della persona, significa il diritto di chiunque a costruire pezzi di città nel modo che ritiene più utile per sé e per tutti.



Milano non è fatta a cerchi, come si è detto per troppo tempo. Milano è fatta a spicchi, a settori, a pezzetti, a quartieri. La sua forma porta dentro di sé la sua importanza di antichissimo crocevia europeo, le sue distruzioni e ricostruzioni, le sue ferite e le sue cicatrici, le sue mura e le sue acque sotterranee, i tanti progetti che l’hanno attraversata. Bisogna percorrerla pezzo per pezzo per capire la sua particolarità. Conosco bene altre città, ma nessuna è così.
Una certa ossessione centripeta, per fare un esempio, ci ha fatto fraintendere Milano, che non è così orientata al Centro Storico come si dice, e forse non lo è mai stata. Viceversa, i milanesi sono molto territorializzati, spesso più sono milanesi e meno si definiscono tali: si dicono afforesi, lambratesi, dell’Isola, della Gamboloita, di Morivione, di Quarto Oggiaro, di Baggio, derganesi – e i loro figli vogliono rimanere lì, anche se nel frattempo sono diventati ricchi e anche se il posto dove abitano si chiama Quarto Oggiaro: perché loro non cambierebbero Quarto Oggiaro nemmeno per via Vincenzo Monti.
E allora vedi le vecchie case rinascere, rivivere, e la città muoversi al proprio interno, cambiare.
Sostenere la libera azione dei cittadini, riconoscendone il valore pubblico quando questa azione offre un servizio che è per tutti, sostenere chi – anche se non è soggetto pubblico – cerca di rendere più vivibile il proprio quartiere, è un dovere per un pubblico amministratore che ama la città.
Certo, lavorare così è più faticoso per lui: anziché starsene in poltrona dovrà girare la città, conoscerla pezzo per pezzo, rendersi conto di quali sono i punti critici e dove, viceversa, qualcosa di nuovo e di bello sta accadendo; deve capire perchè qui le cose funzionano e là non funzionano, e rinunciare spesso, con l’umiltà delle persone intelligenti, ai propri preconcetti – anche perché non è detto che le persone dalle quali bisogna imparare siano sempre simpatiche.
Non è un caso che proprio a Milano, prima che altrove, si sia cominciato a parlare di “sussidiarietà”, e la ragione è che questo grande principio culturale (non amministrativo, non politico) a Milano è sempre stato praticato, è la sua natura, il suo dna.
Molte città sono nate “dal basso”. La maggior parte di esse, però, è stata prima o poi rimodellata secondo le esigenze, i disegni o l’ideologia dei potenti. La nostra città, nonostante le molte umiliazioni, non ha lasciato che la parola definitiva sulla sua forma, sulla sua vita, sul suo destino fosse quella del potere. Giovanni Testori usò, per definirla, la parola “insurrezione”, e prima di lui ce la mostrò così Alessandro Manzoni.
Questo mi aspetto faccia un bravo sindaco: assecondare e favorire quell’insurrezione, quella forza piena di dignità che nasce da dentro e si esprime in opere, in azioni: industrie, scuole, università, romanzi, cattedrali.

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