«Un patto per la città, sulla base di quei valori nei quali ci riconosciamo come persone e come cittadini»; a condizione di rispettare la verità dell’uomo, il suo desiderio di salvezza e la sua storia di fede. Lo dice a ilsussidiario.net mons. Franco Buzzi, Prefetto della Biblioteca Ambrosiana.
«Il bene più grande, da tutti condiviso – ha scritto recentemente mons. Buzzi sul Corriere, facendo un paragone tra la Milano di San Carlo Borromeo e quella di oggi – era l’ideale di una società bene organizzata in cui fosse garantita agli abitanti della città una pacifica convivenza nel rispetto delle leggi vigenti». Se allora il valore della verità poteva essere affermato anche a scapito della persona, quattro secoli dopo coesistono culture, valori, modi di vita e di pensare la città diversi se non opposti. Il rischio oggi si è capovolto, ed è che in ossequio al principio dell’accoglienza, alla molteplicità dei diritti e delle religioni un’intera storia di fede sia messa a tacere. «Chi sente di appartenere alla Chiesa – spiega mons. Buzzi – è chiamato oggi ad un grande lavoro di approfondimento e di ricerca di tutti quegli elementi che, identificandoci, ci rendono al tempo stesso aperti e capaci di conservare la nostra appartenenza».



Mons. Buzzi, oggi i tempi sono diversi e lei nel suo articolo spiega bene perché. In che cosa invece una figura come quella di san Carlo Borromeo può essere di riferimento per la Milano di oggi?

Nella sua incondizionata dedizione alla Chiesa: attuò i decreti del Concilio tridentino, con la riforma che prevedeva la residenza dei vescovi, e lasciò egli stesso la corte papale, dove aveva dimora presso suo zio papa Pio IV, per venire a Milano. San Carlo si mise in gioco in prima persona e seppe animare nel profondo la vita della chiesa e della società, coinvolgendo tutto il «laicato» di allora.



Nel suo articolo però lei scrive che la società e la chiesa all’indomani del Concilio di Trento erano ancora unite. Cosa fece realmente san Carlo?

Di solito abbiamo una immagine abbastanza distorta della Chiesa post-tridentina, come se fosse una Chiesa di tipo piramidale in cui tutto viene deciso in maniera essenzialmente «clericale», cioè con il clero che ha in mano tutto e tutto dispone. Invece non fu così. Carlo seppe suscitare dal basso le energie della società e farle convergere nella creazione del grande edificio del corpo della Chiesa, lasciando alle confraternite – nelle quali era organizzato il laicato – uno spazio proprio di esercizio, nel quale potessero emergere i carismi di tutti.



Come sono riuscite le confraternite a svolgere un ruolo civile così importante?

Perché non erano soltanto confraternite di preghiera, ma anche di carità. Pensiamo soltanto a quelle che si dedicavano alla cura degli orfani o delle madri in difficoltà. Si poteva dare addirittura, a quel tempo, la felice coincidenza tra confraternite e corporazioni di mestiere. Non si rifletterà mai abbastanza sulla grande importanza di questo fatto per la storia di Milano – oltre che per il suo valore dal punto di vista della personalità cristiana.

Si spieghi meglio.

Per esempio si vede benissimo l’attenzione di san Carlo, nei suoi discorsi ai maestri di bottega, a far sì che tutto coloro che si trovavano riuniti per svolgere il lavoro tipico di una corporazione conducessero una vita che definirei «modellata» sui ritmi della religiosità popolare. I lavoranti potevano fermarsi e raccogliersi in preghiera. Incoraggiare una vita che avesse nelle pieghe del quotidiano un riferimento esplicito a Dio e alla Provvidenza non era assolutamente qualcosa di «fuori dal mondo», come sarebbe stato due o tre secoli dopo.

Questa sintesi di fede, carità e lavoro che ha segnato Milano è riuscita a sopravvivere alla secolarizzazione moderna?

È durata a lungo. Le posso portare un esempio che può sembrare banale, ma che è molto significativo. È nota la grande devozione di san Carlo a Cristo che patisce, in particolare a quel momento della Passione che è l’orazione di Gesù nell’Orto degli ulivi. L’effige di Gesù nell’orto è sempre stata presente nelle botteghe e negli opifici, da allora almeno fino a una generazione fa, e in taluni casi lo è ancora. La gente era stata educata ad amare Cristo e ad averlo continuamente presente in diversi momenti della Sua storia dolorosa.  La Sua presenza diventava il «sale» di un lavoro talvolta faticoso, talvolta gratificante, ma sempre orientato a Colui da cui veniamo e torniamo.

Allora il valore della persona e delle sue scelte – lei scrive sul Corriere – poteva venire facilmente subordinato al primato della verità e con esso dell’ordine sociale. Oggi la vita civile, come lei ancora rileva nel suo articolo, è segnata dalla molteplicità delle ispirazioni e delle fedi. Ha ancora senso parlare di un «patto» per la città, e su quali basi?

Un patto per la città dovrebbe esserci, sulla base di quei valori nei quali ci riconosciamo come persone e come cittadini. Tutti siamo sempre chiamati a onorare l’umano in noi e negli altri, riconoscendo a ciascuno la libertà di manifestare la propria fede e le proprie convinzioni o di esercitare la propria ricerca, in maniera non soltanto privata ma anche pubblica, e facendo sì che tutto questo poi converga in un bene di tutti che si accresce. Oggi i diritti umani sono un bene inalienabile, «non negoziabile». Occorre non smettere mai di rifarsi a quella specie di «piattaforma» fondamentale, a maggior ragione quando convivono fedi diverse.

In nome di questo patto e dell’ordine della città, si può sacrificare la verità?

No. La verità non va mai sacrificata, ma sempre riconosciuta e instancabilmente ricercata. Qui torna l’importanza delle fede nello spazio pubblico: non vi si può rinunciare. La nostra adesione a quei valori è motivata anche da convinzioni di fede, che per questo non devono essere nascoste e che nessuno può pretendere di nascondere, ma che devono anzi diventare forza propulsiva nell’esercizio di quel patto. Diversamente, senza un fondamento trascendente, sarebbero valori di tipo illuministico basati presuntivamente su una identità dell’uomo priva della sua radice religiosa e destinata con ciò a esaurirsi. Perderemmo noi stessi.

Milano è ormai la più multirazziale delle città italiane. Secondo lei quanta diversità Milano è disposta ad accettare?

È una questione difficile. Da un lato ci sono reazioni forse un po’ esasperate, che negano addirittura la possibilità della presenza di persone diverse. Dall’altro ci sono posizioni così aperte che non si pongono in nessun modo il problema di una convivenza che salvaguardi un tessuto identitario, quello della nostra provenienza e dunque della nostra fede. Chi sente di appartenere alla Chiesa è chiamato oggi ad un grande lavoro di approfondimento e di ricerca di tutti quegli elementi che, identificandoci, ci rendono al tempo stesso aperti e capaci di conservare la nostra appartenenza. È un campo nel quale bisogna quasi partire da capo.

Ma Milano è ancora una città di fede?

Difficile dirlo. La fede è una realtà non misurabile, non quantificabile; siamo nell’ambito di quelle realtà spirituali che trascendono sempre il nostro giudizio. L’approccio più giusto è quello di non considerare la fede un problema degli altri, ma nostro.

Cosa vuol dire «partire da capo»?

Non dare più niente per assodato, e lavorare alla costruzione di una coscienza comunitaria che renda visibile l’appartenenza di fede. Bisogna superare il rischio di una convinzione di fede vissuta in maniera semplicemente individualistica, perché questa è troppo fragile e non ha un terreno adeguato in cui crescere, alimentarsi e manifestarsi.

Oggi non c’è soltanto una molteplicità di fedi. La società laica è caratterizzata anche da una molteplicità di desideri che pretendono di diventare diritti.

Posti in questi termini, il problema delle fedi e quello dei diritti sono il frutto più maturo del nichilismo contemporaneo.  L’atteggiamento possibilista che in alcuni diviene dire sì a tutto in maniera sconsiderata, scaturisce molto facilmente più che da una convinzione di fede – basata sull’universalismo di un disegno di salvezza, teologica fondato – da una perdita del senso di appartenenza e di verità; dalla convinzione che tutte le fedi sono possibili, perché tutte sono uguali nella loro assenza di verità. Si compie a questo punto il loro «sfruttamento» orizzontale: tutte possono dire qualcosa di valido per la vita sociale e come tali viene loro concesso di esistere. Questa è l’estrema deriva del nichilismo nel quale siamo immersi, e ha un equivalente nella problematica del desiderio. Ognuno pretende di essere riconosciuto in quello che fa, ma senza la possibilità di far valere con delle ragioni condivisibili la plausibilità e la bontà di quello che fa. Il desiderio così concepito non è più una istanza universale di significato, ma l’assolutizzazione estrema, individuale, del proprio relativo. Esso non è più comunicabile, non ci sono più ragioni e l’unico esito possibile è lo scontro.

Nemmeno in questo caso vale che in nome del patto civile si può sacrificare la verità?

No, perché in questo modo il desiderio – e con esso l’uomo, noi uomini – è tolto nel suo significato più profondo e più libero, decurtato nelle sue possibilità. Pare oggi di assistere alle formulazioni estreme contenute ne L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner – del quale Nietzsche fu più che debitore. Si attacca e si distrugge il fondamento vero di tutte le cose, ma anche il fondamento antropologico universale. Non c’è più Dio ma non c’è più nemmeno l’Uomo, il condivisibile tra gli uomini: esiste solo l’Unico, cioè l’individuo, e ciò che gli pare e ciò che vuole ora, adesso. Di quello che vuole non ha da rendere ragione a nessuno, nemmeno a se stesso inteso come coscienza.

Quali sono le conseguenze di questa visione?

L’unico esito possibile è la distruzione della relazione sociale.

Il dibattito che ha accompagnato le elezioni a Milano ha mostrato un grande desiderio di cambiamento. Che cosa c’è nella tradizione culturale di questa città che può favorire una solidità di questo desiderio, sempre esposto al rischio di perdersi o di naufragare nel cinismo?

Da una parte penso alla sua grande tradizione di fede, di cui è segno la stessa Biblioteca Ambrosiana, deposito della crescita culturale di secoli, che non rinuncia a leggere, a capire e ad incontrare il presente. E dall’altra, direi l’antica tradizione di «industria» che ha Milano, nel senso originario latino del termine, dove industria significa darsi da fare, industriarsi – appunto – a voler uscire con progetti razionali, ragionevoli e condivisibili da una situazione di difficoltà. Nel nostro popolo esiste ancora la volontà di una costruzione comune positiva, l’idea che tante capacità possono venire organizzate in vista di un bene che supera gli interessi dei singoli. È un grande patrimonio civile e culturale che nasce dalla storia cristiana della città.