Le vicende della vita mi hanno portato a stringere amicizia con l’uomo cui è stata affidata l’amministrazione della cultura nella città di Milano (non dico “gestione”, o “governo”, perché la cultura non si gestisce né si governa, però si può amministrare, come si amministrano i beni di casa, affinché non vadano persi): Stefano Boeri.



Io auguro innanzitutto a Boeri di poter svolgere brillantemente questo difficile compito e mi sento di offrirgli il mio parere sulla direzione che occorrerebbe prendere, se non altro per non ripetere gli errori del passato.

Chi ama la nostra città (e Boeri fa sicuramente parte di questa schiera) deve innanzitutto preservarne – per la parte che gli compete – la grandezza. Nel mio libro Il crollo delle aspettative (2005) dedicato a Milano la prima osservazione era dedicata a questo punto, che a sei anni di distanza mi sento di ribadire: Milano deve stare all’altezza della sua importanza, che tutto il mondo le riconosce. Tutto le si può perdonare, non la piccolezza.



Uno degli errori commessi dalle precedenti gestioni culturali milanesi è stato proprio quello di ridurre la forza dell’originalità culturale di Milano, oppure di svuotarla.

Riduzione. Un esempio di riduzione sta in tutta quella caotica congerie di mostre e mostriciattole che hanno intasato gli spazi centrali della città, e delle quali non serberemo mai nessun ricordo (tranne, forse, quella del Canova, se tutto il resto ci permetterà di isolarla nella nostra memoria). Mostre importate già impacchettate, allestite con più riguardo per i comunicati stampa che per le opere esposte, dietro le quali non si sa se intravedere qualche affaruccio privato oppure, semplicemente, il nulla.



Non che la circuitazione delle opere d’arte non sia cosa talvolta buona (senza elevarla a principio), ma uno schema come quello adottato a Milano può essere buono, al massimo, per una città piccola come Parma, Modena, Bergamo, Vicenza.

Fare una mostra a Milano richiede ben altro livello: devono essere tendenzialmente mostre importanti, scientificamente ineccepibili e soprattutto dotate di una chiave di lettura capace non tanto di toccare la fantasia ma di stabilire nessi nuovi, facendo fare un passo avanti alla conoscenza degli artisti e delle opere. Questo non potrà accadere sempre, ma potrà servire sempre da pietra di paragone per le altre esposizioni. Che anche una mostra piccola e senza pretese sia, comunque, una mostra seria.

Altrimenti, a Milano toccheranno le briciole dell’arte.

Svuotamento. Bisogna fare altresì attenzione al rischio di trasformare la grandezza di Milano in una grandeur senza un vero contenuto. Se si edifica una nuova area, se si costruisce un palazzo importante, è necessario che questo edificio stringa con la città tutta un rapporto simbolico fortissimo, altrimenti, oltre a gettare la propria ombra eccessiva sulla città, esso rappresenterà solo e unicamente i suoi costruttori, i suoi committenti, un po’ come il deposito di Paperon de’ Paperoni. Un grande intervento architettonico dentro la città deve poter essere percepito in breve tempo dalla città come proprio, ma perché questo avvenga l’edificio deve possedere, come detto, una forza simbolica, deve tendere a essere una specie di cattedrale: la città deve percepirlo come proprio, come un centro della propria vita.

Perché questo sia possibile bisogna rinunciare alla retorica, a tutta la retorica, di destra come di sinistra. Auguro a Boeri di lasciar perdere espressioni ambigue come “cultura del fare”, che nulla significano e nulla generano se non vuota autorappresentazione, ma gli auguro anche di non fare propri gli stilemi romani, che spesso e volentieri hanno ridotto la cultura nella capitale a puro show appesantito da un fastidioso giovanilismo di ritorno.

Per favore, risparmiateci un’invasione di John Lennon, Che Guevara, Anni Sessanta e Settanta, Marilyn, Woody Allen, “Wonderful World”, risparmiateci il “come eravamo”, risparmiateci lo spettacolo dei vecchi che blandiscono i giovani e tutte quelle cose “di sinistra” di cui è necessario cominciare a fare a meno (come di diverse cose “di destra”). Ma, soprattutto, risparmiateci la spettacolarizzazione della cultura: siamo milanesi.

Per questo mi permetto di raccomandare a Boeri un occhio di riguardo per tutto il nostro straordinario patrimonio teatrale: dai teatri stabili – a cominciare dal Piccolo, ma senza dimenticare il Franco Parenti, l’Elfo Puccini, il Crt ecc. – alle compagnie di giro, che sono la vera spina dorsale della cultura teatrale italiana, molte delle quali hanno sede nella nostra città. Prima di spalancare le porte ai grandi eventi (che pure devono esserci, s’intende) cerchiamo di lavorare con le istituzioni radicate sul territorio e su tutto ciò che la città sente come “proprio”.

E buon lavoro.