Propongo ai lettori del “Sussidiario” questo bellissimo raccontino di una giovane giornalista che frequenta il mio corso di Etnografia Narrativa. Nella desolazione suscitata dallo stile di insediamento del nuovo Consiglio Comunale (quel risotto arancione mi ricorda, ahimé, il vecchio assessore romano Nicolini, e non è un bel ricordo, roba comunque di oltre 30 anni fa) questo allegro racconto di una futura prossima mamma milanese mi pare esprima – nella sua intelligente semplicità e nella sua totale mancanza di retorica – la parte bella della nostra città. Una parte che nulla ha a che fare con la politica, ma solo con la speranza presente in noi. Quella mamma è ciascuno di noi: è, in qualche modo, la città stessa, o la sua parte più bella.
Luca Doninelli
Aspettando
Di Chiara Zamin
“Driiin” squilla il citofono. “Salve, sono Veronica, volevo lasciarle un volantino su come trovare la felicità e che spiega se mai finiranno tutte queste sofferenze nel mondo”.
“No grazie, non mi interessa”. Avevo rifiutato istintivamente con un sorriso di scherno l’offerta improvvisa della sconosciuta. Chissà quanti come me nel condominio l’avevano liquidata in fretta. In quel momento della giornata non ero preparata a fare riflessioni esistenziali, nè avevo l’entusiasmo necessario per controbattere a qualcuno che proponeva ricette pseudo-religiose su come affrontare la vita. Era sabato mattina, avevo indosso ancora il pigiama e tante faccende da sbrigare.
A parte un pò di uggia esistenziale, la giornata, pensai, era iniziata secondo i migliori presupposti: il cielo era blu intenso e un sole deciso illuminava l’albero di ciliegio che si affacciava sul terrazzo del mio appartamento, ed era lo spettatore silenzioso delle mie giornate. A volte il vento scuoteva così forte i suoi rami che finivano per sfiorare il davanzale regalandomi una sensazione di protezione materna, come se le sue braccia si allungassero per stringermi.
“Oggi esco in bicicletta, c’è l’aria pulita” pensai. “In Viale Monza ci sarà meno smog, ne sono certa”.
Nonostante il solito frastuono delle auto in coda a ridosso dei semafori, pedalare lungo i marciapiedi non era poi così male.
Schivavo i pedoni con disinvoltura. Mi sembravano i piccoli ostacoli di una partita al videogame. Quando mi avvicinavo a loro, suonavo il campanello. Alcuni si giravano e mi sorridevano o addirittura si scusavano per non essersi spostati subito. Sono privilegi che durano un attimo. In realtà, pensai, le biciclette a Milano non hanno nessuno diritto di esistere. Non è come sulla Leopoldstrasse a Monaco di Baviera, dove gli appassionati delle due ruote – la maggioranza delle persone – percorrrono spediti le piste ciclabili noncuranti dei pedoni distratti che immancabilmente passeggiano sulle loro “autostrade”.
“Fai passare la signora” disse una mamma al figlio. Io la ringraziai, con atteggiamento discreto ed educato creandomi lo spazio tra due passanti che camminavano al suo fianco. Qualche minuto dopo sentii qualcuno commentare: “In bici sul marciapiede…”. Era un ragazzo sui 30 anni.
“Senta, ha ragione, ma io aspetto un figlio e non voglio rischiare viaggiando sulle strade principali, dove motorini e auto tagliano la strada e rischiano di investirti.”
“Lo sa che le possono farle la multa?” ribattè il ragazzo. “Beh adesso non esageriamo” risposi. La multa in Italia ad un ciclista che pedala lentamente sul marciapiede, non l’ho mai sentita.” Piuttosto sono cose che accadono in Svizzera, pensai.
In molti disapprovavano il fatto che io andassi in bicicletta al quinto mese di gravidanza. “Ma sei matta?” esclamò un giorno una mia amica. “E perchè no?” risposi io. L’ostetrica non me lo aveva affatto proibito.
“Tu te la senti?” mi disse una volta. “E allora vai, ma senza esagerare”
Ovvio, niente allenamenti da Tour de France come il piccolo “Champion” protagonista del film “Appuntamento a Belleville”. Niente sudate, nè smanie da prestazione. Desideravo semplicemente passeggiare in bicicletta, per gustare, in quei momenti, i miei sacrosanti piccoli attimi di libertà.
Avere una bici mi velocizzava il ritorno a casa quando mi scappava forte la pipì. Da quando era incinta infatti, ogni quarto d’ora circa aveva bisogno di un bagno. Una volta mi trovai a fare dello shopping in Corso Buenos Aires. Cercavo disperatamente una toilette. A Porta Venezia scoprii per caso che una gelateria disponeva di un servizio ai piani sotterranei.
Quella volta scesi le scale in fretta. Non ce la facevo più, ma dovetti aspettare perché era occupato. Dopo qualche minuto uscì dalla porta un turista americano. Aveva lo sguardo mortificato e guardandomi esclamò: “It’s not so nice”, “Non è molto piacevole”.
“Mi dispiace” risposi io in inglese, preoccupata più per me che per lui, povera vittima di una esperienza sgradevole in suolo italiano. Non appena infatti entrai nella stanza “non tanto carina” mi chiesi se quello spiaccicato sul pavimento fosse stato veramente e soltanto gelato al cioccolato. Mistero.
Una volta mi capitò in Piazza del Duomo di lasciare di corsa il camerino del negozio di Benetton in cui stavo provando dei vestiti premaman. Dopo aver scoperto che la toilette del negozio di abbigliamento era guasta mi diressi spedita verso quella della libreria Mondadori.
Dopo una lunga attesa, dovetti ingegnarmi su come lavarmi e asciugarmi le mani, oltre a trovare un sostituto della carta igienica.
“Adattati” mi dicevo. Mi veniva in mente la “visita” alla toilette pubblica costruita a Berlino in mezzo ad Alexanderplatz. Quella volta non credevo ai miei occhi: sul pavimento del bagno avrei potuto camminare scalza.
Ero andata alla Benetton per rinnovare il guardaroba. “Che bel pancione rotondo, sembra un’anguria” commentò guardandomi il ventre una commessa.
Fino ad allora non ci avevo ancora pensato: il pancione può essere veramente sexy e farti sentire bella.
“Sei incinta? Ma quanti anni hai?”
Avevo superato i trent’anni ma la natura, fortunatamente, mi aveva regalato un aspetto giovanile, da ragazza, alcuni dicevano, appena uscita dall’università, quando il “settle down” è ancora troppo lontano. Si devono fare esperienze di lavoro, prima che figli e marito rischino di diventare due grandi impedimenti alla realizzazione professionale. Avevo fatto questi ragionamenti quando a 23 anni, fresca di laurea, ero partita per il nord Europa desiderosa di fare nuove esperienze. Sentivo che volevo svincolarmi dalla mentalità e dalle abitudini italiane.
Poi, dopo un lungo soggiorno negli Usa, mi ritrovavo di nuovo a Milano. A volte mi sembrava che il tempo si fosse fermato o che addirittura avesse fatto marcia indietro. Forse perché non era cambiato nulla in Italia. Almeno per me.
In metrò da sola alle 11 di sera non ci andavo, avevo paura. Mi dovevo sempre organizzare per il rientro a casa dopo la mezzanotte. Le metrò chiudevano e la 90 ci impiegava due ore per arrivare a destinazione.
Avevo perso quell’autonomia conquistata nei lunghi soggiorni all’estero.
E poi ora che stava per arrivare un bambino, mi chiedevo come sarebbe stato girare con il passeggino in metropolitana.
Una conoscente qualche giorno fa me ne regalò uno di seconda mano.
Sembrava un vero e proprio affare, fino a quando realizzai che pesava un macigno ed era piuttosto ingombrante. Aveva tre ruote giganti con un struttura e un design ideale più per fare trekking che per essere sollevato, piegato, e manipolato durante i viaggi sui mezzi di trasporto.
Per non parlare del nostro ascensore condominiale anni ‘70, dall’ingresso ridotto, troppo stretto per consentire il passaggio delle due ruote laterali.
Eppure, quante mamme, soprattutto straniere, ho incontrato in metropolitana in tutti questi mesi. Dovrebbero scrivere una guida con consigli pratici, fornendo kit di sopravvivenza, su come viaggiare sui mezzi di trasporto di Milano in compagnia di un baby. Loro sì che sono temprate. Potrebbero dire la loro su come si muovono nelle ore calde, senza aria condizionata, su quando scendono alle fermate senza scale mobili nè ascensori, sull’attesa di tram e bus in ritardo e su quando il bambino piange disperato nelle situazioni di affollamento.
Leggere manuali a volte mi rendeva meno disorientata, mi scacciava le paure. Negli ultimi mesi passai da quelli di cucina a quelli per vivere bene la gravidanza. Su “What to expect when you are expecting”, “Cosa aspettarsi quando stai aspettando” trovai indicazioni su come muovermi per rendere la nascita del mio bambino il più serena ed entusiasmante possibile, della serie “scegli l’ospedale che fa per te dopo un tour accurato”.
Così un venerdì pomeriggio visitai l’ospedale Buzzi.
“Lei è di Milano?” Chiese la signora in divisa all’ingresso.
“Sì perché?” “Tenga qui allora” consegnandomi il volantino di campagna elettorale di Pisapia, distribuito da una sua amica che stava volantinando davanti all’ospedale in occasione del ballottaggio. Avrei preferito piuttosto un depliant su cosa mettere in valigia il giorno del ricovero. Comunque.
La signora mi guardò negli occhi con insistenza e prima di lasciarmi entrare in ospedale aggiunse: “Mi raccomando eh!”. Mentre ripensavo alla situazione assurda arrivai finalmente davanti all’ascensore. Le insegne erano in italiano, in arabo, in spagnolo e in cinese. Stavo per giungere al secondo piano, al reparto maternità, quando mi venne da sorridere ripensando al commento di una mia amica: “Quella volta che partorii Gulia, mi misero in camera con una donna musulmana che sapeva di cipolla. Alla fine mi sembrò che tutto odorasse di quello “.
Appena uscii dall’ascensore me ne accorsi subito: l’ambiente era decisamente internazionale.
Mentre percorrevo il corridoio, sbirciai con occhio discreto dentro le stanze. Alcune erano vuote. C’era una tranquillità insolita. Niente affollamenti, nè fiori e schiamazzi. Eppure era l‘orario per il pubblico.
Tre piccoli monelli arabi non volevano obbedire ai rimproveri del loro papà. Stavano giocando a rincorrersi in corridoio mentre il babbo tentava di condurli a visitare la sorellina nata da poco.
Mi avvicinai alla sala Nido. Un’ampia vetrata permetteva di ammirare dall’esterno i faccini dei neonati. Erano nelle loro culle, molti di loro dormivano. Una targhetta su ciascuno di loro indicava il nome e il peso. Le loro mamme arrivavano di tanto in tanto per coccolarli, nutrirli e cambiarli.
Mi girai verso il corridoio un’altra volta e vidi una mamma italiana di circa 40anni, seduta sulla poltrona, mentre il nonno teneva tra le braccia, con modi un pò impacciati, il nipotino neonato. “Chissà come lo tratteranno i fratellini” esclamò la donna con istinto materno, forse un pò preoccupata, temendo che il suo piccolo, una volta arrivato a casa, sarebbe stato strapazzato come un pupazzo.
Mi avvicinai ancora una volta alla vetrata. All’interno era rimasta soltanto una mamma con il suo piccolo. Girata di spalle la donna, di statura alta con capelli neri lunghi, era intenta ad accarezzarlo. Il bambino era indeciso se piangere o dormire. A tratti diventava rosso, pronto per scoppiare in un folle pianto ma poi le coccole gli facevano cambiare idea. Nella sua targhetta lessi: Jia Qi Simone. Aveva il taglio degli occhi a mandorla e i capelli di un nero intenso come quello della mamma. Ad un tratto la donna si voltò verso la vetrata e mi notò. In quel momento eravamo solo io e lei. Con gli occhi luminosi mi sorrise spontaneamente, con complicità, come se mi conoscesse, quasi a condividere con me il suo pensiero: “Ma quanto è buffo mio figlio!”