Domenica 26 giugno il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha confermato l’intenzione di istituire il registro delle coppie di fatto. Non sappiamo, allo stato, come potrà evolvere questa iniziativa, certo è che – pur preannunciato in campagna elettorale – questo registro ha il sapore di una forzatura, sembra rispondere più a una sorta di ansia da regolamentazione e incasellamento, che a un reale bisogno.
Questo in effetti è il paradosso: si vuole registrare a tutti i costi unioni di fatto che, al contrario, per loro natura nascono sin dall’origine e per scelta precisa deregolamentate, chiedono di restare fuori dagli schemi e per natura loro non hanno bisogno, e anzi non sopportano, vincoli di sorta. E chiedono, per ciò stesso, che venga risparmiata loro la regolamentazione perché né vincolo formale, né vincolo giuridico cercano, per loro natura.
Libere e non vincolate per definizione, nate fuori dalla forma e che chiedono di vivere fuori dalla forma. E dunque come potremo chiamare questa iniziativa, meramente burocratica, che costituisce questo paradosso in termini? Ansia da incasellamento? Ansia da regolamentazione? O peggio, ansia da regolarizzazione? La longa mano della “regola”, la pretesa del dover essere sull’essere?!
Ci sono alcune questioni che restano aperte, sulle quali ritengo valga la pena di riflettere e sulle quali mi interrogo, occupandomi professionalmente di famiglie in difficoltà, separazioni e divorzi di coppie coniugate, così come di unioni di coppie di fatto, che pure talvolta possono terminare in modo altrettanto doloroso e faticoso.
Dolorosamente e faticosamente perché, come dice la volpe al Piccolo Principe: “Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato”, dove – con il termine addomesticare – la volpe intende il creare quei legami affettivi che ciascuno di noi liberamente ricama, di qualunque natura essi siano.
E quando la carne umana si risolve liberamente a legarsi in un vincolo di affetto – giuridico o non giuridico – è responsabile per sempre di ciò che fa e pur anche quando questa carne viene a dividersi – con o senza forma giuridica – è sempre e comunque tessuto umano che viene a strapparsi e per natura sua lascia, in qualunque circostanza, brandelli sparsi sul terreno. Dunque una questione di libertà della persona e una questione di responsabilità.
Questioni che sono aperte e che sarebbe interessante mettere a tema, con lo spessore della vita di ciascuno e senza posizioni pregiudiziali, con coloro che ritengono meritevole e lodevole l’iniziativa di un registro che, in brutta copia, dia forma all’unione affettiva di fatto tra due persone. Questioni aperte di fondo.
Da questo punto di vista, prima ancora che le domande “Cosa voglio da questo rapporto affettivo?” o “Cosa questo uomo o questa donna può dare alla mia vita?” o ancora “Cosa vogliamo costruire insieme?” oppure “Questo compagno potrà darmi la felicità che cerco, la felicità che mi aspetto?”, vengono prima altre, ben più pesanti, ben più spesse e ben più pressanti domande, che appartengono all’esistenza e al destino di ciascun uomo e di ciascuna donna e che nessuno, vivendo, può eludere o estirpare. Perché vengono fuori da sole quando l’uomo si guarda vivere.
“Ma io chi sono, veramente?”; “Perché sono nato?” e “Qual è il mio destino”; “Come raggiungere, se mai possibile, la felicità che tanto desidera il mio cuore ora?”, la felicità per la quale tutti sentiamo di essere fatti e siamo pronti a raggiungere e ad afferrare in qualsiasi momento, almeno come desiderio intenso e irrinunciabile in qualunque condizione concreta ci veniamo a trovare.
Come dice Pavese ne Il mestiere di vivere: “Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito”. Quella ricerca, quelle domande di senso restano aperte nel corso della vita ed emergono inesorabilmente e ciclicamente, qualsiasi sia la condizione affettiva e sociale in cui ci veniamo a trovare.
Come ha scritto recentemente Salvatore Veca, libero filosofo, nel suo elogio della incompletezza: “In noi è costitutivo il perdurare della domanda di senso. […] L’interrogazione è una costante del nostro modo di vivere. Siamo predatori di senso. Fare delle domande vuol dire cercare delle risposte. Siamo dei predatori di risposte, risposte di senso”.
È una battaglia persa in partenza ritenere che l’altro, qualunque altro, qualunque esso sia -uomo, donna, sposato, non sposato, unito, non unito – l’altro, altrettanto fragile come noi, altrettanto incompleto, altrettanto limitato, altrettanto fastidioso per certi aspetti, altrettanto pieno di difetti come noi, l’altro insomma, possa soddisfare realmente, possa soddisfare pienamente questa esigenza irrinunciabile di felicità, che pur è talmente intesa e reale da farci toccare la concretezza di un “per sempre”, di una possibile eternità o infinito.
Se l’uomo smette di cercare la soluzione di questo enigma, se non resta leale di fronte alla propria incompletezza, se non sta di fronte a questo problema che viene prima e che resta immutato nel corso della vita, non c’è forma che tenga, non c’è registro che tenga! Non c’è registro che possa risolvere o regolare il tema della vita.
L’istituzione del registro delle coppie civili sembra un passo culturale verso una gabbia – per tutti – più che una conquista interessante. La scommessa è aperta: ciascuno dia il proprio contributo.