Sapeva gustare del mondo, della vita e della sua terra, e farne gustare agli altri. Ma viveva in uno stato di ascesi e abnegazione quotidiana. Si trattava dei mezzi coni quali raggiungere il suo unico fine: «il benessere della persona e della comunità, potremmo dire, medioevalmente, la “convenienza” dell’io e del “noi”». E’ la descrizione che fa dell’allora cardinal Ratzinger il neo arcivescovo di Milano, mons. Angelo Scola. Pubblichiamo un testo estratto dal saggio “Joseph Ratzinger 1927-1997” scritto, in occasione del compleanno del cardinale tedesco
Ho incontrato per la prima volta il cardinal Ratzinger nel 1971. Era Quaresima. Il ricordo di quell’incontro si è arricchito di sfumature nella inevitabile rielaborazione della mia memoria. Un giovane professore di diritto canonico, due sacerdoti non ancora trentenni studenti di teologia e un giovane editore erano a tavola, invitati dal professor Ratzinger, in un caratteristico ristorante in riva al Danubio che, a Regensburg, scorre né troppo lento né troppo impetuoso così da far ancora pensare al bel Danubio blu. L’invito l’aveva procurato von Balthasar per discutere della possibilità di fare un’edizione italiana di quella rivista che sarebbe poi stata Communio.
Balthasar sapeva rischiare. Alla fine di quel colloquio, aveva detto: «Ratzinger, dovete parlare con Ratzinger. É lui oggi l’uomo decisivo per la teologia di Communio. É il perno della redazione tedesca. Io e De Lubac siamo vecchi. Andate da Ratzinger… se lui è d’accordo…». Si ripeteva così per noi, in poche settimane, un’esperienza stimolante. Avevamo osato con Balthasar, una personalità famosa conosciuta prima solo dai libri, affrontandolo con un misto di timore e provocazione, ora ci aspettava un altro teologo ben più giovane ma altrettanto affermato, che discuteva con Rahner e Kung e divideva – ne parlammo lungo tutto il viaggio da Friburgo a Regensburg – non solo le nostre opinioni ma anche i nostri animi. Eravamo due a due: due a favore e due contro.
Con il suo tratto delicato, i gesti misurati ma gli occhi mobilissimi, Ratzinger ci illustrava il menu: una lunga sequenza di succulenti piatti bavaresi… Mostrava di conoscerlo bene, era senz’altro un habitué del ristorante. Noi, superato l’impaccio dell’inizio, da buoni latini, per giunta giovani, ci lanciammo in paragoni fra menu bavaresi e lombardi. Qualcuno aveva passato sufficiente tempo in Germania per concedersi di discettare sui tipi e le marche delle birre.
Mi ricordo bene che chiesi al nostro ospite cosa ci consigliasse: pazientemente riprese ad illustrarci ogni piatto della lista, spingendoci a gustarne più di qualcuno per farci un’idea della cucina bavarese. Ormai da un po’ il cameriere attendeva rispettoso al tavolo.
Non senza disordine e aumentando progressivamente il tono dei nostri scambi fino al punto da far voltare qualche altro commensale, finimmo, sotto gli occhi benevoli ed il sorriso, forse un po’ impaziente, del nostro ospite, per scegliere un vasto ed esagerato assortimento di piatti. Ratzinger chiuse la lista degli ordini dicendo al cameriere qualcosa come «per me il solito». Il cameriere servì prima, con meticolosità tedesca, noi tutti, alla fine portò al noto teologo un toast e una sorta di limonata. La nostra sorpresa rischiava l’imbarazzo. Con un sorriso, stavolta veramente largo e bonario, il cardinale ci liberò, esclamando: «Voi siete in viaggio… Se io mangio troppo come si fa poi a studiare?».
Commentando l’episodio, al ritorno in auto, notammo però quella battuta: «come al solito», del cardinale al cameriere. Non è per aggiungere il tratto agiografico della sobrietà alla biografia del cardinale che mi sono dilungato su questo piccolo, personale ricordo. L’ho fatto solo perché, anche dopo l’approfondirsi della mia conoscenza, quell’episodio mi pare dire il suo stile e lo stile, si sa, è l’uomo. Ratzinger è un vero cattolico bavarese: capace di godere e di far godere la vita (le pagine sulla Baviera del volume La mia vita sono a tratti vera poesia).
Il suo segreto è che l’affronta come compito. Amante della persona in quanto partecipa della vita del popolo per il quale è naturale spendersi totalmente, è capace di un’abnegazione quotidiana tenace, mai appariscente. L’ascesi, l’etica, ed il governo non sono in lui fini ma mezzi: fine è il benessere della persona e della comunità, potremmo dire, medioevalmente, la “convenienza” dell’io e del “noi” con una vita pienamente realizzata.
I suoi interessi teologici, ad esempio la vita eterna (escatologia), la rivelazione nella storia, il nuovo popolo di Dio, la liturgia non sarebbero adeguatamente colti senza capire l’orgoglio appassionato per la sua appartenenza al popolo cattolico bavarese, fatto appunto di lieta partecipazione ad ogni aspetto dell’umano e di pertinace senso del compito. Così aveva avuto cura che noi suoi giovani ospiti, dopo aver ammirato la bellezza dei campi di luppolo sull’autostrada da Monaco a Regensburg e aver ascoltato il valzer in riva al Danubio, potessimo anche godere dei frutti della sua terra nella Gastatte accogliente col suo ricco piede di porco, la varietà dei Wurstel e la Fastenbier (la birra scura di Quaresima).
Nello stesso tempo, senza sussiego, intendeva mantenere il suo ritmo abituale di vita e di lavoro… La sensibilità metodologica, nello stesso tempo fortemente unitaria ed articolata, capace di sintesi ma anche di esaltare le più piccole sfumature di un fenomeno storico o di un aspetto del pensiero, è comune a tutte le tappe del percorso di Ratzinger. Essa costituisce il fattore di continuità della sua opera. Ciò impone, in un certo senso, di sfatare un primo stereotipo sorto intorno al pensiero di Ratzinger.
Mi riferisco al supposto passaggio da “teologo progressista”, per fasi successive, a “prefetto restauratore”. Per una persona che possiede un principio sintetico vitale, nel nostro caso un’esperienza di fede legata ad una comunità in cammino, l’evolvere del pensiero, non privo ovviamente di correzione e di inveramento, lungi da essere prova di discontinuità, ne documenta la ricchezza e la maturità.
L’affermazione di una supposta rottura nel pensiero di Ratzinger è da ascrivere al pregiudizio ideologico, ormai troppo radicato anche tra cristiani, che applica il modello conservatori/progressisti alla Chiesa nelle sue espressioni organiche e nei suoi uomini. Un altro stereotipo che cade con facilità, appena si conosce la persona, è quello del “prefetto di ferro”, che farebbe pensare, prima ancora che ad una rigidità di pensiero, ad una durezza di tratto.
Basta parlarci una volta per cogliere la squisitezza della sua umanità. Ciò che sorprende, quando si ha modo di ascoltarlo e di dialogare con lui sui più svariati problemi, è che ti comunica sempre una sfumatura in più, qualcosa di nuovo, ti apre sempre a qualcosa che non avevi ancora visto.