Preceduta da polemiche anche dure, “Unexpected Israel”, la “settimana dedicata alla nazione di Israele” si terrà come previsto in Piazza del Duomo a Milano. L’evento avrà luogo dal 13 al 23 giugno e prevede mostre, incontri (tra gli altri lo scrittore David Grossman e la cantante Noa), un forum economico con la partecipazione del ministro israeliano dello sviluppo economico Shalom Simhon. Eppure non è stato facile arrivare a questo punto. Nei gironi scorsi infatti si sono levate le voci di protesta ad esempio del Comitato varesino Palestina che nelle parole di Filippo Bianchetti ha criticato aspramente l’evento: “Non si può festeggiare un Paese criminale” ha detto. “Milano è città medaglia d’oro della Resistenza” ha aggiunto “e noi siamo a favore della resistenza palestinese”. Un banco di prova non da poco per la nuova giunta Pisapia che è stata criticata a sua volta per non aver espresso sufficiente solidarietà alla manifestazione, anche se in seguito il neo sindaco ha dato il suo appoggio incondizionato alla serie di eventi ricordando l’accoglienza tipica di Milano. Ma voci critiche sono arrivate anche da Israele: c’è chi ha detto che le autorità italiane non stavano facendo abbastanza per proteggere l’evento, tanto che si era parlato di trasferirlo all’interno delle mura del Castello Sforzesco. IlSussidiario.net ha chiesto al professor Khaled Fouad Allam, sociologo e politico algerino residente in Italia (fra le sue attività anche quella di Islamista all’Università di Urbino), un autorevole parere.
Cosa ne pensa delle critiche che sono state fatte alla manifestazione “Unexpected Israel”?
So che è stata molto criticata dalla sinistra radicale. Ma Israele è uno Stato riconosciuto ufficialmente e considero la manifestazione milanese un evento culturale come tanti altri. L’Italia è un Paese democratico per cui non c’è alcun motivo di vietare un evento come questo. Ovviamente la manifestazione non deve occultare la dimensione problematica del rapporto che c’è tra Israele e la Palestina e la nascita stessa dello Stato palestinese. Ma considero chi critica eventi come questo gente che non contribuisce assolutamente alla nascita stessa dello Stato palestinese. Il contrario, direi.
Si è criticato anche l’uso di Piazza del Duomo…
E perché? Per la cattedrale?
In realtà si è criticato l’uso della piazza in quanto centro della città.
Lei ritiene che un luogo come Piazza del Duomo, cuore della cristianità, possa essere adibito a manifestazioni di questo tipo e comunque a manifestazioni laiche?
Io direi di sì. Se si decide che Piazza del Duomo deve essere adibita solo ai turisti è un conto, ma visto che già vi si tengono manifestazioni di ogni tipo, va bene anche questa. Succede in tutta Europa: le cattedrali dominano i centri cittadini, ma ovviamente lo spazio adiacente è usato per ogni attività civile. Chi si occupa della mostra in questione dovrà stare bene attento a non deturpare la bellezza del luogo, ma non credo davvero che l’uso di Piazza del Duomo possa lanciare una sorta di messaggio subliminale di qualunque tipo si voglia. E’ giusto che la piazza in generale assuma anche una valenza laica.
Però proprio in Piazza del Duomo un paio di anni fa una manifestazione islamica si concluse con una preghiera sul sagrato della cattedrale che molti intesero come una provocazione…
Ricordo benissimo quell’episodio, scrissi anche degli articoli. Bisogna ricordare che quel gesto fu la conclusione di una manifestazione in cui si chiedevano spazi di preghiera a Milano, un problema, quello degli spazi religiosi, che esiste in tutta Europa. Come storico dell’Islam, la mia occupazione, voglio ricordare che l’Islam della conquista concesse sia in Spagna, ad esempio a Cordova, ma anche in Siria, all’interno delle moschee degli spazi riservati ai cristiani affinché potessero pregare. Perciò su episodi come quello citato non bisognerebbe polemizzare: si tratta di preghiera e basta.
Ha seguito le polemiche della campagna elettorale per il sindaco di Milano, intendo quelle relative alla costruzione di una grande Moschea?
Intanto l’uso della parola “grande” prima di moschea fa abbastanza ridere. E’ un uso improprio e ideologico. A Roma ci sarebbe già la “più grande moschea d’Europa”, ma anche a Rotterdam si dice ci sia “la più grande moschea d’Europa”. Si gioca sulla terminologia perché in un periodo storico come questo di turbolenze, ricordiamo che è il primo periodo della storia europea in cui l’Islam si realizza come religione stabile di minoranza sul territorio europeo, si sfrutta per interesse politico questa problematica.
Cioè?
In un momento di crisi come quello in cui viviamo, è molto semplice strumentalizzare da una parte e dall’altra la situazione: per avere un consenso politico si gioca su immigrazione e Islam, è un dato di fatto che interessa tutta l’Europa, non solo l’Italia. Il problema non è la “grande” moschea, ma chi è dentro la moschea. Bisogna stare attenti alla formazione del personale di culto, perché non si infiltrino elementi fondamentalisti.
Lei pensa che con l’amministrazione Pisapia cambierà in qualche modo il rapporto con la comunità islamica milanese?
Pisapia è una persona. Quello che sarà importante sapere è invece chi chiamerà a lavorare con lui, di quali consulenti si circonderà, quali assessori chiamerà in giunta. Pisapia può dire tutte le parole belle che vuole, ma dovremo giudicarlo in base alle persone che chiamerà a lavorare con lui. Adesso ovviamente è troppo presto, dobbiamo aspettare per dare un giudizio. Io ovviamente spero di sì, che cambi qualcosa a Milano, ma dobbiamo aspettare, è ancora presto. Importante è che Pisapia non si circondi di persone che abbiano una visione ideologica della realtà, ma che la sappiano giudicare in modo obbiettivo. Fenomeni come la discriminazione razziale, la giustizia sociale, sono fenomeni estremamente delicati che bisogna saper governare.
Come vede l’attuale situazione israelo-palestinese? In particolare, cosa ne pensa del modo in cui l’amministrazione Obama sta affrontando il caso Medio Oriente?
Il discorso di Obama sul ritorno ai confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni mi è sembrato molto interessante, sicuramente un punto di partenza. Purtroppo mi sembra che Israele non abbia nessuna intenzione di farlo proprio. Attualmente l’amministrazione Obama sta osservando come si evolve lo stato delle cose senza prendere posizioni particolarmente decise. Quello che mi preoccupa invece, e molto, è l’accordo stretto recentemente tra Al Fatah e Hamas. Questo accordo sancisce una alleanza preoccupante tra vecchi nazionalisti arabi e le frange più fondamentaliste e radicali. E’ davvero un fatto preoccupante. Ed è qualcosa che attraversa non solo la Palestina, ma quasi tutto il mondo arabo. Ci sono in gioco due visioni dell’Islam diverse fra loro, in lotta, e in casi come questi c’è sempre uno che perde e uno che vince. Purtroppo i gruppi fondamentalisti sono quelli più strutturati e quindi quelli in grado di vincere questo scontro.
Lei dunque non vede in modo positivo le rivoluzioni in corso nei Paesi arabi? Non sono qualche cosa di positivo?
Direi che l’espressione usata è sbagliata e inviterei a smetterla di parlare in chiave di “positività”. La storia non funziona così. Nella stessa storia europea ci sono esempi clamorosi di questo: la rivoluzione francese non ebbe forse un periodo di terrore? Napoleone non scippò in parte gli ideali della rivoluzione stessa? E’ normale che questi movimenti storici possano essere sommersi da violenze e contraddizioni, in periodi brevi, ma anche lunghi che noi non sappiamo. Il contesto attuale dunque mi porta a pensare che si vada verso un periodo relativamente difficile e duro, ma mai definitivo. Il bisogno di libertà e giustizia espresso dai giovani arabi lo dimostra, è un bisogno autentico, ma attenzione perché in ogni rivoluzione i lupi sono sempre in agguato.
(Paolo Vites)