La Pinacoteca di Brera è uno dei grandi buchi neri di Milano. Di per sé, si tratta di una delle maggiori collezioni d’arte del mondo. Se però ci andate l’impressione che vi porterete dietro – nonostante i tanti capolavori ammirati – è quella di un museo brutto, disordinato, raffazzonato, senza il minimo riguardo per il visitatore.
La conseguenza è che una collezione come quella di Brera, che dovrebbe produrre tutti i giorni una lunga fila di visitatori, nel cortile e poi lungo via Brera, tutti ansiosi di acquistare il biglietto per vedere finalmente Lo sposalizio della Vergine, il Cristo morto o La cena di Emmaus, viene disertata dai più, e anche i milanesi – cresciuti in scuole dove maestre e professori non hanno, a loro volta, la più pallida idea di cosa ci sia d’importante da vedere lì dentro – ormai non sanno più niente di quello che dovrebbe essere un loro vanto.
Fino ad oggi il problema è stato messo in sottordine rispetto ad altri perché la gestione di Brera non è di competenza comunale né regionale né provinciale, bensì statale. E lo Stato, a sua volta, non aveva fatto quasi niente per adeguare un museo come questo alle esigenze di una città che stava cambiando.
Finalmente qualcuno – nella fattispecie l’ex-sindaco di Milano Letizia Moratti – decide di invertire la rotta e crea un progetto dedicato a Brera nel quale sono chiamati a intervenire diversi capitali privati. La cosa avrebbe dovuto succedere molto tempo fa, ma la stupidità e la servitù all’ideologia hanno impedito a quanti ne avevano la competenza di vedere le cose come stavano.
Su tutta questa faccenda vorrei dire due cose che mi stanno molto a cuore.
1) La strada del capitale privato ormai non è più un’opzione, ma una via obbligata. Faccio un esempio per capirci. Prendiamo Firenze, la culla del Rinascimento nonché città d’arte per antonomasia. Il sindaco Renzi, che è una persona intelligente, l’ha capito benissimo: un’amministrazione pubblica è costretta a scegliere se operare per favorire chi vive e lavora nella città oppure proteggere il turismo. I soldi per tutto non ci sono, non ci possono essere. E allora ecco il dilemma: o operiamo, ad es., sulle infrastrutture, “accorciando la città”, o ci occupiamo della manutenzione di una quantità di capolavori d’arte che supera ogni facile inventario.



Se ben capisco, la scelta di Renzi – e io avrei fatto la stessa cosa – è stata quella di favorire soprattutto i cittadini.
Intanto, però, Firenze cade a pezzi. Andate nelle due piazze più belle della città, Ss. Annunziata (dove la costruzione dello Spedale degli Innocenti coincide con l’atto di nascita del Rinascimento) e S. Spirito, dove Filippo Brunelleschi realizzò il suo ultimo capolavoro. La situazione di degrado di questi monumenti è spaventosa. Ci sono palazzi storici che vengono letteralmente sgretolati dagli escrementi dei piccioni!
In che modo può un’amministrazione pubblica – di destra o di sinistra che sia – far fronte a spese così enormi senza il contributo del capitale privato? E’ ora di superare la logica striminzita degli sponsor: ci vuole un’iniezione di capitale massiccia. Ma per fare questo i privati vogliono la loro controparte in termini di agevolazioni fiscali (come in America) o di massicci diritti di sfruttamento (come avvenne con la Sony, nel caso del restauro della Cappella Sistina).
Del resto, non si capisce perché i privati dovrebbero accollarsi il restauro dei monumenti senza avere nessuna controparte. La logica della controparte non è una logica malata: malato è il potere pubblico che, fraintendendo la propria funzione, si trasforma in ideologia e demonizza l’iniziativa privata – la quale, com’è noto, ha tra i suoi caratteri quello di non fare le cose gratis.
2) In tutta questa storia – che comprende, oltre a Brera a Milano, anche la vicenda del restauro del Colosseo affidato ai Della Valle – quali sono gli attori che recitano male la loro parte?
I privati fanno il loro mestiere. Come hanno sempre acquistato le squadre di calcio con l’intento di realizzare un utile, allo stesso modo faranno con il Colosseo, Brera e, si spera, tutta Firenze. Mettere una grande opera dell’ingegno umano nelle condizioni di parlare, oggi, all’uomo di oggi, è una grande responsabilità che costa, tra l’altro, un sacco di soldi. Se le finanze pubbliche non sono in grado di sostenere la spesa, si aprano le porte ai privati.



L’importante è che i patti siano chiari: che il progetto sia serio e completo in tutte le sue parti, e che la sua realizzazione non stia sotto l’arbitrio di nessuno. Brera non si può risistemare “in qualche modo”. La sua fruibilità deve comportare il massimo di rigore scientifico unito al massimo di accessibilità per il pubblico cosmopolita di oggi.
Chi, viceversa, latita è il potere pubblico. Se questo ovvio connubio con i privati non c’è stato tanto tempo fa, la colpa è del pregiudizio ideologico di uno Stato che non è mai riuscito a pensarsi altro che come una banda, mai – mai – realmente super partes. Di uno Stato che non avendo la necessaria autorevolezza si è rivalso sui cittadini, guardandoli sempre con sospetto ed erigendo un muro tra sé e le altre componenti della società, negando all’opera dei cittadini qualunque valore pubblico.
Mi pare, insomma, che quanto sta accadendo a Milano e a Roma sia inevitabile, così come inevitabile, nonostante i ritardi dovuti all’ideologia e alla mancanza di autorità (che fomenta l’ideologia), è una revisione del rapporto pubblico-privato. E’ ora che sia chiaro, se vogliamo andare avanti, che “pubblico” non è né un soggetto né un ruolo, ma solo una funzione. L’idea secondo la quale il cittadino privato è un individuo che si occupa esclusivamente dei propri affari privati e perciò delega al potere pubblico l’assolvimento dei compiti pubblici non è eterna: si è sviluppata attraverso determinate vicende storiche. Ma le vicende storiche continuano, e può venire il tempo in cui ciò che è stato codificato si vede costretto a cedere il passo a un nuovo codice.
Forse un cittadino privato è qualcosa in più dell’ignorante che ci taglia la strada con il suv. Come diceva un personaggio di Woody Allen: bisogna avere un po’ di fiducia nella gente.

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