Quando ero ragazzo la Centrale era un postaccio. Gente che andava e veniva, ma anche gente che stava lì, ai margini del flusso: barboni, mendicanti, ladruncoli, imbroglioncelli (immancabile il gioco delle tre carte, con biglietti da cinquantamila che sparivano e risse che nascevano, anche alle cinque del pomeriggio).

Un postaccio romantico, anche. Una notte, nel 1977, la passai lì, insonne, sul mezzanino, per vedere quello che succedeva (non successe molto, tranne un poliziotto che rincorreva un ragazzo, forse uno spacciatore). Nel 1988 Giovanni Testori ambientò proprio in Centrale il suo capolavoro In Exitu, storia di un tossicodipendente che si prostituisce e muore di overdose in un cesso, incontrando lì le braccia amorose di Gesù.



L’ho chiamata addirittura cattedrale, e lo confermo. Perché il viaggio ha a che fare con il destino: ci sono incontri, fughe solitarie, baci e abbracci, addii, lacrime. E lei, la grande stazione, era ancora come in certe vecchie fotografie: nera, sporca per la fuliggine delle vecchie vaporiere. Pochi i negozi: un bar, qualche giornalaio, più tardi un supermercatino.



Poi, la giusta rivoluzione. Sono cominciati i lavori di ristrutturazione, che hanno portato – benché non ancora finiti – all’assetto attuale. L’edificio, restituito alla sua bellezza, è stato però anche modificato. Adesso ospita un vero e proprio centro commerciale con molti bar, ristoranti, gelaterie, profumerie, negozi di scarpe, maglierie, bigiotterie nonché l’immancabile grande libreria Feltrinelli.

Si è molto parlato – non era difficile farlo – dei difetti dell’intervento. Ne ricorderò alcuni. Il più grosso è che bisogna arrivare in stazione con almeno mezz’ora di anticipo (ma è meglio abbondare) se si spera di poter acquistare il biglietto. Un altro è che i tapis roulant al posto delle scale mobili moltiplicano i tempi di salita e discesa. Molti dicono che il rifacimento della stazione è stato a tutto vantaggio dei commercianti e a detrimento dei viaggiatori.



Si aggiunga che le macchinette per fare i biglietti peggiorano di continuo. Quelle nuove, per esempio, non prevedono biglietti per l’estero (ne so qualcosa io, che tutti i mercoledì vado a Lugano) e non è rado che al momento della stampa del biglietto emettano un bel marameo elettronico. Dopo essersi mangiata, s’intende, i vostri soldi.

C’è comunque da separare Trenitalia, che qualche distratto può anche scambiare con una società per delinquere, dalla società Grandistazioni, che si è occupata del rifacimento.
Io non vorrei più unirmi alle critiche sulla Centrale. Dopo diverse riflessioni, sono giunto alla conclusione che, se i risultati sono scarsi, questo era in qualche modo inevitabile, e forse le soluzioni alternative prospettate sarebbero state, alla fine, anche peggio.

La mia impressione è, infatti, che il margine delle soluzioni possibili si sia molto assottigliato, e che molte di quelle ritenute un tempo possibili non lo siano più, semplicemente. Questo perché l’impatto del nostro mondo con un certo numero di eventi ha prodotto una fragilità della quale facciamo fatica a renderci conto.

Mi esprimo con un esempio. A me avevano sempre detto che lo tsunami comporta onde altissime: dieci metri e più. Qualcuno ricorderà un brutto film catastrofista, Deep Impact, dove New York viene sommersa da un’onda alta circa come l’Empire State Building.
Invece le terribili immagini del Giappone, giunte a noi in abbondanza, ci rivelano che l’onda dello tsunami può non essere necessariamente molto alta, e che è piuttosto la sua forza dirompente a produrre i noti disastri: non mediante onde spettacolari, ma attraverso un innalzamento di tutto il mare. Lì possono bastare due metri, forse ancora meno, per fare disastri.

Allo stesso modo, noi non ci rendiamo conto della spinta che la crescita della popolazione esercita sulle cose – strade, case, palazzi ecc. – che furono pensate per un mondo diverso. Quando la Stazione Centrale fu costruita la popolazione mondiale non arrivava ai due miliardi, mentre ora sono sei o sette. Quando la Stazione Centrale fu costruita, essa era pensata per un mondo in cui viaggiavano solo i pendolari e i viaggiatori di commercio in una città sedentaria, che concepiva gli spostamenti solo per le vacanze o in altre rare occasioni.

Le grandi stazioni sono oggi quasi sempre affollate, ed è pensabile che lo saranno sempre di più. Il problema di distribuire chi la frequenta su tutta la superficie del fabbricato non è fittizio. Come non lo è quello dei tempi necessari per l’acquisto dei biglietti e di tutti gli altri tempi morti di cui è fatta la vita di una grande stazione ferroviaria.

Io trovo, in altre parole, che la Stazione Centrale, così com’è oggi, corrisponda esattamente alla velocità media del viaggiatore che ne fa uso: se gli dai l’illusione di poter correre, si troverà nel gorgo poi (ricordo situazioni in cui non era possibile nemmeno accedere ai marciapiedi dei binari, tanta era la gente). La velocità alla fine è quella, tanto vale non correre – proprio come certi autisti di città che procedono lentamente perché hanno calcolato i tempi dei semafori, in modo da raggiungerli sempre con il verde.  Alla fine il risultato è lo stesso, però ci di ferma di meno, si ha meno l’impressione di generale inefficienza.

Verrà il tempo in cui, per salire su una scala mobile o su un tapis roulant, bisognerà munirsi, prima, di un numerino, e poi magari occorrerà fare la fila per prendere il numerino.
E’ con problemi come questi, davvero esorbitante, che ha a che fare chiunque abbia il coraggio di intervenire sulle vecchie strutture. Criticare è molto facile, tutti vedono sempre le soluzioni giuste. Ma prendersi la responsabilità di cercare soluzioni – sia pure le meno peggio – è un altro paio di maniche.