Le pioniere sono state le grandi aziende. Perché potevano permetterselo, avevano le risorse finanziarie, e il capitale umano:. Parliamo, per esempio, di Luxottica, Microsoft, Atm Milano, Edison. Hanno iniziato coi nidi aziendali, poi hanno introdotto il lavoro flessibile, i buoni spesa e i servizi di consulenza e orientamento. Hanno, per utilizzare una terminologia appropriata, avviato programmi di “welfare aziendale”. Non solo per far star bene i propri dipendenti, ma anche per star bene come aziende, ovvero avere meno confiltti interni e più partecipazione. Una lungimiranza che ha alzato il sipario sulla possibilità reale e concreta di conciliare lavoro e famiglia.
Per loro, però, è stato facile. O comunque molto meno complicato di come potrebbe essere, per esempio, aprire un nido aziendale per una piccola impresa brianzola, che magari ha solo 15 dipendenti di cui appena 4 con figli in età di poterlo sfruttare. Ma se la piccola azienda brianzola si mette d’accordo con un’altra piccola azienda della zona, che magari di dipendenti con pargoli di meno di 3 anni ne ha qualcuno di più, la cosa si può fare. Gia, ma come? Per esempio tenendo d’occhio, nelle prossime settimane, il sito della Regione Lombardia. Perché tra le 48 pagine della deliberazione 2055 che la Giunta, su proposta dell’assessore Giulio Boscagli, ha approvato il 28 luglio scorso, c’è anche uno stanziamento di 5 milioni di euro per la sperimentazione di progetti innovativi in materia di welfare aziendale e interaziendale destinati proprio alle piccole e medie imprese. Occhi aperti, dicevamo, perché il bando non è ancora stato pubblicato.
“Le politiche di conciliazione – si legge nel provvedimento – non possono essere realizzate a prescindere dal sistema impresa. Per realizzare tali programmi è necessaria però una massa critica, che le PMI, la cui produzione rappresenta il 62% del totale delle imprese italiane, stentano a raggiungere. Per questo occorre intervenire anche sul fronte pubblico, facilitando le reti d’impresa, offrendo servizi di formazione e consulenza, premiando le best practices. In Lombardia è stato avviato un processo di consultazione delle aziende attraverso un tavolo di lavoro ristretto ad alcune tra le più importanti imprese sul territorio per analizzare difficoltà e opportunità dei sistemi di welfare aziendali e promuovere reti territoriali per le iniziative di conciliazione”.
Via alla sperimentazione, quindi, di quanto già è stato fatto dai più grandi. L’invito vale per le piccole imprese, quelle con un organico tra 10 e 49 persone e un fatturato (o il totale di bilancio annuale) inferiore ai 10 milioni di euro, ma anche per quelle meno piccole, tra i 50 e i 249 dipendenti e con un fatturato annuo fino a 50 milioni di euro (o un totale di bilancio annuiale inferiore ai 43 milioni di euro). Da sole o in compagnia, associate tramite Ati (associazione temporanea d’impresa) o in partenariato con enti pubblici (in qualità di partner esterno), non appena il bando verrà pubblicato, potranno presentare i loro progetti finalizzati a “individuare percorsi di welfare aziendale innovativi – recita la deliberazione della Giunta regionale – che possano contribuire alla definizione del nuovo modello di ‘conciliazione lombarda Pmi’, favorire lo sviluppo sociale attraverso il welfare aziendale, sostenere sperimentazioni di accordi di secondo livello per l’attivazione di programmi interaziendali volti a promuovere il benessere sociale e familiare, sviluppare modelli di welfare integrati – dove welfare aziendale e welfare territoriale si intreccino e si accrescano reciprocamente – per favorire lo sviluppo sociale e promuovere la conciliazione famiglia – lavoro”.
Certo, si tratta di obiettivi che magari l’amministratore della trafileria in Valsassina non comprenderà in pieno, ma gli basti sapere che quello che potrà fare coi 200mila euro a fondo perduto della Regione (anche se 200mila euro è il contributo massimo erogabile concesso per un ammontare massimo dell’80% del costo complessivo del progetto) farà molto felici i suoi dipendenti. Che lavoreranno meglio, saranno più produttivi e torneranno a provare quel senso di appartenenza per l’azienda in cui lavorano perduto da tempo. Ma di cosa parliamo, quando leggiamo “sviluppo di percorsi di welfare aziendale”, “programmi integrati di servizi”, e via dicendo? Parliamo, per esempio, di servizi aziendali per l’infanzia, come asili nido o baby sitting, ma anche di dopo scuola, centri estivi, attività sportive per i figli dei propri dipendenti. Ma anche iniziative che liberino un po’ di tempo per i lavoratori: lavanderia, spesa a domicilio, spingendoci fino a un “maggiordomo aziendale” che si occupi delle commissioni che, a causa degli orari di lavoro, non si riescono a effettuare. E poi assistenza sanitaria integrativa, magari stipulando convenzioni con centro medici e diagnostici esterni, fondi pensione integrativi, servizi assistenziali integrativi come acquisto di medicinali, prenotazione di visite mediche, copertura della dimissione ospededaliera per anziani o disabili a carico. O anche solo, più semplicemente, servizi di trasporto e di accompagnamento che magari vadano al di là della navetta aziendale indipensabile per raggiungere la “cattedrale nel deserto”, ovvero i capannoni dell’azienda lontani dal centro abitato. Tutte iniziative che sicuramente allegerirebbero, e non di poco, il carico psicologico che il lavoro comporta, specie per la consapevolezza del tempo sottratto a sé e ai propri cari.
I progetti, in ogni caso, dovranno avere durata biennale. Dopo due anni, presumibilmente, i dipendenti aprezzeranno talmente i nuovo servizi da considerarli irrinunciabili. E l’azienda avròà capito che dare molto di più, in fin dei conti, costa poco di più. Specie se i soldi, è il caso di dirlo, piovono dall’alto.