La notizia arriva da un report della Camera di Commercio di Milano. Raddoppiano in due anni le vie milanesi dove prevalgono le imprese straniere. In pratica, a Milano, una ditta individuale su quattro ha come titolare uno straniero, in particolare un extracomuinitario.
Si può dire che da un punto di vista imprenditoriale cambia la mappa della città. Il problema è che il processo di internazionalizzazione ha avuto un’accelerazione in questi ultimi due anni. In altri termini è diventato più rapido che in passato.



Se si fa un bilancio in percentuale, si nota che l’incremento in questi ultimi due anni è stato del 13,2%. I nuovi piccoli imprenditori, ma sarebbe meglio dire i titolari di imprese individuali o familiari, appartengono agli immigrati dell’ex “terzo mondo”, che caratterizzano con la loro presenza addirittura alcune vecchie strade di Milano, interi quartieri.



È il caso di viale Padova e viale Monza, nella zona di piazzale Loreto. La maggioranza dei cittadini cinesi-milanesi sta sempre in via Bramante e nella loro tradizionale roccaforte di via Paolo Sarpi, la vecchia “Chinatown” milanese, dove sin da prima dell’ultima guerra c’erano insediamenti di cinesi che vedevano cravatte. Oggi la presenza si è moltiplicata.
Gli egiziani hanno invece come “quartier generale” via Imbonati e via Arquà, mentre i cingalesi si sono insediati in via Pietro Crespi.

Guardando la mappa della città si nota che sono 76 ormai le strade milanesi in cui le imprese con un titolare italiano rappresentano una minoranza. Se consideriamo il totale delle imprese di extracomunitari che sono presenti a Milano, indipendentemente dalla loro forma giuridica, abbiamo un risultato di 13.914 imprese, con una prevalenza di egiziani, cinesi e marocchini.



Su questo fenomeno, che è probabilmente il frutto più tangibile della globalizzazione, abbiamo sentito il professor Giovanni Marseguerra, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano, particolarmente attento ai mutamenti sociali. 

Dice Marseguerra: «I dati della Camera di Commercio, secondo i quali oggi a Milano una ditta individuale su quattro ha come titolare uno straniero e negli ultimi due anni sono raddoppiate le vie milanesi dove prevalgono le imprese straniere, mi sembrano particolarmente significativi e mi inducono a due riflessioni, una generale e una più specifica. La prima riflessione, di ordine generale, è che è ormai evidente come l’ emigrazione rappresenti oggi un fenomeno strutturale della nostra società. A una significativa presenza di immigrati è del tutto naturale che corrisponda una altrettanto significativa presenza di imprenditorialità immigrata».

Professore, però un insediamento di tale portata, adesso a livello di imprenditorialità diffusa, tale da cambiare la mappa dei quartire cittadini pone sempre dei problemi. «Se l’immigrazione è un dato costituivo della nostra società, allora sono necessarie specifiche politiche di integrazione degli immigrati nel tessuto sociale e produttivo dei Paesi ospitanti. E queste purtroppo non sempre ci sono. In una società multietnica come è ormai la nostra, diventa essenziale capire quale significato dare al concetto di integrazione, con la consapevolezza che ogni processo di integrazione è per sua natura multidimensionale, da declinare quindi non solo in termini economici, ma anche sociali, culturali e politici, con ciascuna di queste dimensioni che può presentare gradi diversi di realizzazione (ad esempio a una elevata integrazione economica può accompagnarsi una ridotta integrazione culturale o politica). Ogni politica di integrazione dovrà poi essere improntata dalla consapevolezza che l’immigrazione può e deve essere considerata una risorsa, anziché un ostacolo per lo sviluppo».

Ma questa imprenditorialità di cittadini extracomunitari, oltre a essere un fenomeno dei nostri tempi, porta anche un contributo di carattere economico? «La seconda riflessione, più specifica, è che il fenomeno dell’ imprenditorialità immigrata, in crescita un po’ in tutti i Paesi europei, è oggi di fondamentale importanza sia per la società dei nativi che per la comunità straniera. Si tratta di un esempio concreto di come la solidarietà, nella sua versione dinamica e creativa, possa concretamente condurre allo sviluppo. Da un lato, per la società ospitante, la crescita di imprenditorialità immigrata significa arricchimento in termini di idee, modelli e iniziative (oltre alla frequente rinascita di attività altrimenti destinate a scomparire); dall’altro, per l’immigrato riuscire a “mettersi in proprio” significa miglioramento della condizione occupazionale e professionale, maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società, maggiore visibilità e riconoscimento sociale».

Milano sembra essere una delle grandi città battistrada in questo fenomeno di immigrazione imprenditoriale, che di fatto si allinea al panorama delle grandi città europee. «Da questo punto di vista il dato di Milano mi sembra molto incoraggiante perché è mia profonda convinzione che la crisi di cui al presente soffrono le relazioni internazionali, gli Stati, la società e l’economia siano in larga misura dovute alla mancanza di un’adeguata ispirazione solidaristica creativa e dinamica orientata al bene comune. È il bene comune che dà senso al progresso e allo sviluppo, i quali diversamente si limiterebbero alla produzione di beni materiali che sono necessari, ma senza l’orientamento al bene comune a prevalere è il consumismo e lo spreco nei Pesi ricchi, la povertà e gli squilibri nei paesi in via di sviluppo. Il segnale di un’imprenditorialità immigrata che a Milano riesce a crescere e a creare ricchezza per tutti può allora rappresentare un’indicazione che lo spirito di solidarietà ambrosiano è ancora vivo e radicato nella società, e capace di contribuire allo sviluppo in una visione di bene comune».

Ha altre considerazioni da fare al proposito, professor Marseguerra ?«Molte altre potrebbero essere le riflessioni sulle quali non mi sono soffermato nella mia riflessione. Sono ben consapevole, in conclusione, di come la mia lettura dell’analisi della Camera di Commercio sull’imprenditorialità immigrata offra una interpretazione sostanzialmente positiva dei dati. Non ho ad esempio esaminato la questione se la crescita della imprenditorialità immigrata derivi da un declinare della capacità imprenditoriale nostrana, e, nemmeno, mi sono soffermato sulla pericolosità di una eccessiva concentrazione delle attività imprenditoriali degli immigrati in alcune specifiche zone della città. Sono temi che credo siano rilevanti, ma che lascio a future più approfondite considerazioni. In tempi di crisi mi sembra meglio vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto”.