A Pessina cremonese è stato inaugurato il tempio sikh più grande d’Europa. Alla cerimonia erano presenti più di tremila persone, fedeli e non, indiani o italiani, oltre alle autorità. La costruzione – cui mancano ancora le 5 cupole d’oro che arriveranno quando i fondi consentiranno di acquisirle – è stata realizzata secondo i tradizionali canoni indiani. E si trova in mezzo ai campi di granoturco. La comunità sikh, secondo il sindaco di Pessina, Dalido Malaggi, è ben integrata: «Sono amici, senza di loro il lavoro nelle stalle e nei campi non potrebbe andare avanti». Eppure, la collocazione del tempio, spiega Salvatore Abruzzese raggiunto da IlSussidiario.net, non rappresenta di sicuro un modello integrativo positivo. Un problema non molto dissimile da quello che riguarda la costruzione della moschea a Milano. «Questo tipo di operazioni – afferma – mi lasciano profondamente perplesso. Queste religioni, come tante altre provenienti dall’Asia, sono fortemente correlate ai propri contesti geografici e culturali. Arrivano a identificarsi con il territorio in cui storicamente sono sorte e si sono sviluppate, e sul quale hanno sempre avuto anche le loro “messe a distanza” dalle altre fedi». Secondo Abruzzese, «se una religione come questa viene sradicata e trapiantata – continua –non è detto che i suoi appartenenti siano in grado di adeguarsi a vivere in condizioni di pluralità o di riconoscersi all’interno di uno stato democratico. Il trapianto riesce bene solo per alcune, come per il cattolicesimo, che è per definizione universalista». Quindi? è stato un errore costruire il tempio? «Edificarlo è stata un’operazione legittima – spiega – ma isolarlo rischia di portare ad una segmentazione territoriale, come è avvenuto in altri Paesi, dove si sono verificati scontri di confine. Il problema fondamentale consiste essenzialmente nella loro capacità di convivere e accettare come luogo di confronto, anzitutto il medesimo terreno. Costruire questa sorta di fortilizi, chiusi in se stessi, quasi per difendersi dall’esterno, va nella direzione opposta all’integrazione».
Un problema che, seppur sotto una luce differente, si pone anche per quanto riguarda la proposta di costruire una moschea a Milano. La strada da seguire «è il modello che si è imposto in Francia, dove la diverse confessioni sono state “obbligate” a convivere una accanto all’altra. La moschea di Parigi, ad esempio, ha negoziato un accordo con il Comune che ha fatto sì che si confondesse con il resto del tessuto sociale cittadino». Rimangono, ovviamente, i problemi di «accettazione delle regole comuni. E di rispetto della cultura ospitante. Certo, se l’islam e i suoi rappresentanti partono dalla considerazione che i propri interlocutori sono dei depravati in virtù dei loro costumi o uomini privi di senno – conclude -, viene a mancare la premessa per instaurare qualunque genere di dialogo».