Luigi è un ragazzone Down di 55 anni. È sempre allegro e ha un sorriso per tutti. Ultimamente, però, è un po’ giù: la mattina non vuole alzarsi dal letto fino all’ora di pranzo, mangia poco. La sorella è preoccupata, sospetta che sia persino dimagrito, ha paura che abbia un tumore e così chiama l’ospedale per farlo vedere… da lontano, perché di visite vere e proprie non se ne parla nemmeno: con una sola mano e i suoi 85 chili di stazza Luigi è perfettamente in grado di tenere a bada, senza il minimo sforzo, anche il più corpulento dei camici bianchi. Nessuno è mai riuscito a fargli fare neppure gli esami del sangue. Per non parlare della sua avversione ai letti e alle barelle: non vuole vederli neanche in fotografia e a casa dorme su un materasso posato per terra.
Come fare? Ottenere un po’ di privacy in sala d’aspetto, dove ci sono solo sedie, non è difficile, far alzare la maglietta a Luigi un po’ di più. Per quel gonfiore sotto le costole bisogna eseguire degli accertamenti urgenti. La sorella acconsente, ma intanto scuote la testa: “Non potete farcela”, dice. Si danno appuntamento dopo tre giorni. Stesso ospedale, stessa stanza (la sala d’aspetto), stessi medici, che a Luigi offrono un’irresistibile Coca Cola… corretta con benzodiazepine, un sedativo. Dietro la porta, in attesa dei primi segni di Morfeo, tre medici, due infermieri, un anestesista e una barella. Appena Luigi chiude gli occhi, scatta l’incannulamento nella vena periferica, la monitorizzazione dei parametri vitali, il prelievo ematico, l’elettrocardiogramma, la radiografia al torace, la visita clinica. Poi la sorella di Luigi timidamente si affaccia, con in mano le forbicine per la pedicure: “Già che ci siete, prima che si svegli…”. Quando riapre gli occhi, sulla stessa sedia sulla quale si era appisolato, Luigi ha una diagnosi di ernia addominale e le unghie dei piedi un po’ più corte.
Luigi non è uno dei “soliti pazienti”. E i medici che hanno ideato per lui il “protocollo Coca Cola”, grazie al quale qualche tempo dopo è stato operato, non sono i “soliti medici”, ma il pool specializzato, e molto creativo, del quarto piano dell’Ospedale San Paolo di Milano. Qui c’è il quartier generale del Dama, acronimo per l’inglese Disabled Advanced Medical Assistance (assistenza medica avanzata per disabili): cinque medici con competenze multidisciplinari che per ogni paziente si inventano un percorso diagnostico e terapeutico partendo innanzitutto dall’individuo e dalla sua famiglia, coadiuvati da cinque infermieri e da altrettanti volontari appositamente formati, il tutto in una sorta di Tetris sanitario che presuppone non solo la conoscenza dell’ospedale nelle pieghe più recondite, ma anche la capacità di non gravare su una struttura di per sé già congestionata. Un modello di efficacia e di efficienza che nei prossimi anni sarà clonato in tutta la Lombardia: il Piano di azione decennale per le persone con disabilità della Regione prevede infatti che almeno un’azienda ospedaliera per ogni Asl abbia il suo Dama.



“Noi dottori ci sentiamo semidei solo perché sappiamo fare un’appendicectomia – spiega il dottor Filippo Ghelma, coordinatore del Dama – ma poi quando ci si presenta un ragazzo tetraplegico spastico con un taglietto al dito andiamo in tilt”. Ironizzando su colleghi terrorizzati alla prospettiva di eseguire un’endoscopia su pazienti disabili, Ghelma racconta la genesi del Dama: “Un genitore di un disabile ci chiese aiuto perché suo figlio venticinquenne aveva una sospetta esofagite da reflusso. Aveva bisogno di una gastroscopia e di una Tac, ma non trovava nessuno disposto a farle in sedazione. Eppure sarebbe bastato mettere d’accordo anestesista, endoscopista e radiologo. Mi chiamò il mio capo, Angelo Mantovani, l’attuale direttore scientifico del Dama, e mi disse: ‘Filippo, vedi un po’ cosa puoi fare’. Bastarono tre telefonate e venti minuti in pronto soccorso. Non perché sono bravo, ma perché conosco quest’ospedale e chi ci lavora. Beh, ci disse ‘grazie’ il padre del ragazzo? Macchè: si infuriò, perché una cosa che si poteva benissimo fare era stata ritenuta da tutti impossibile sino ad allora. E aveva ragione: così com’è concepita, l’organizzazione sanitaria, con i suoi percorsi standard, non tiene conto dei bisogni di quel 5% di popolazione, che arriva al 30% considerate anche le famiglie, rappresentata dai disabili. Questo significa negare il diritto alla salute”. Per la cronaca, quel genitore era il compianto Edoardo Cernuschi, il fondatore della Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, che insieme ad Angelo Mantovani nel 2001 diede il via al progetto.
Da sei anni il Dama ha superato la fase sperimentale e oggi è un punto di riferimento fondamentale per le persone con disabilità e per le strutture e i centri che li accolgono. Al numero verde 840.02.79.99 giungono ogni anni più di 3.600 chiamate. Circa il 60% dei problemi viene risolto al telefono dai due infermieri professionali sempre presenti, grazie anche a un database sul quale vengono registrate tutte le informazioni che riguardano i 4.133 pazienti presi in carico dalla struttura (compresa la passione di Luigi per la Coca Cola e la sua avversione per i letti). Nel caso si renda necessario un ricovero in Day Hospital, nel 2010 sono stati 581, ci sono due stanze con fiori e colori, una a quattro e l’altra a tre letti, ma per i ricoveri ordinari ci si rivolge ai reparti dell’ospedale.



Con una certa libertà di scelta: “Posso mettere un quarantenne in pediatria, in modo che la madre possa stare sempre con lui”, spiega Ghelma, “l’importante, però, è non pesare sulla struttura. Quando abbiamo un paziente ricoverato in un reparto, noi diventiamo a tutti gli effetti medici di quel reparto. E quando sottoponiamo un caso allo specialista, cerchiamo di essere il più specifici possibile: all’urologo, ad esempio, presento solo il problema urologico, non tutta l’anamnesi del paziente”. Che viene seguito sempre, in ogni reparto, qualunque cosa accada: “Come mi ha insegnato il mio maestro, Angelo Mantovani, il paziente non si molla. Anche se non si sa cosa fare”.
Nessuno standard, né tappe obbligate o inutili attese tra un esame e l’altro: tutto il percorso sanitario si traduce in una gestione flessibile ed elastica della struttura ospedaliera, ottimizzando i tempi e ponendo un’attenzione particolare alle esigenze della persona con disabilità e della sua famiglia. “La figura dei volontari formati dalla Ledha è fondamentale” spiega Ghelma “sono loro ad accompagnare il disabile durante tutto il percorso e riescono a rasserenare anche gli animi più ansiosi, familiari compresi”.
Anche al Pronto Soccorso, per le persone con disabilità esiste un Triage dedicato, messo a punto sempre dall’equipe del Dama, che ha ottenuto una zona di accoglienza dedicata nell’area di osservazione, in grado di ospitare fino a due disabili con accompagnatore.
Il tutto funziona grazie a un mix ben calibrato tra competenze, empatia, inventiva e organizzazione. “Non aspettiamo gli eventi, li prevediamo – spiega Ghelma – e se si libera un letto perché il paziente deve fare una Tac, in quei quaranta minuti che sta via su quel letto riusciamo a fare due visite dermatologiche”. E gli altri medici dell’ospedale? “Il ritorno dai colleghi è eccezionale – risponde Ghelma – perché è facile lavorare con noi. Anche i nostri pazienti, incredibile a dirsi, sono fra i più collaborativi”. L’importante è assecondarli nelle loro richieste: “Vede Francesca”? chiede Ghelma, mostrando la foto di una placida adolescente durante un prelievo ematico “era una furia, ci ha distrutto per due volte l’infermeria, non voleva vedere aghi e provette. Poi abbiamo scoperto che con Linda, una delle nostre infermiere, si fa prelevare il sangue senza nessun problema. Adesso, quando deve arrivare Francesca, facciamo in modo che ci sia sempre Linda”. E se deve arrivare Luigi, ci sono sempre una sedia e una Coca Cola ad attenderlo.

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