La social card, la carta acquisti ricaricabile, utilizzabile, a certe condizioni reddituali, per acquistare alimenti, far fronte alle spese sanitarie e pagare le bollette di luce e gas, si rivoluziona: lo Stato caricherà importi diversi a seconda delle Città e delle regioni di appartenenza, in base al costo della vita e dell’incidenza del tasso di povertà. «Un atto di giustizia sociale che, finalmente, tiene in considerazione le esigenze reali della popolazione senza essere condizionato dalle consuete logiche centraliste», afferma Luca Pesenti, componente della Commissione nazionale d’Indagine sull’esclusione sociale interpellato da ilSussidiario.net.
Seconda la bozza del decreto attuativo impostato dal ministero del Lavoro, la nuova carta, in via sperimentale, (ma quella vecchia continuerà a essere distribuita e utilizzabile) sarà disponibile per le famiglie economicamente disagiate che vivono nei 12 Comuni con più di 250mila abitanti (Roma, Milano, Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Palermo, Torino, Venezia, Verona). La destinazione sarà mediata dagli enti caritativi, come prevede il Dl milleproroghe del 2011. Le differenze di città in città potranno essere anche particolarmente significative, con punte di 137 euro al Nord e 40 al Sud. Le cifre esatte, nel dettaglio, non sono ancora state annunciate. Sta di fatto che l’idea di fondo rappresenta un’importante novità che farà parecchio discutere. «Trovo la differenziazione territoriale – spiega Pesenti – una misura estremamente equa. Il problema storico del welfare italiano è che tutte le strutture universalistiche sono sempre state realizzate in un ottica centralista, con importi uguali per tutto il territorio nazionale, che non hanno mai tenuto in considerazione il costo della vita effettivo con cui una persona deve fare i conti».
Due esempi chiariscono il concetto: «La pensione minima è sostanzialmente identica in tutta Italia, come l’indennità di accompagnamento per gli invalidi al 100% o la pensione di invalidità; si tratta di una modalità iniqua e inefficace». Non è difficile comprendere il perché: «Condanna chi vive nelle grandi aree metropolitane alla povertà». E, tra le Città metropolitane, in una, in particolare, i cittadini in difficoltà rischiano di esser maggiormente condannati: «Milano ha un costo della vita nettamente superiore rispetto a qualunque altra Città – tranne forse Roma – del centro e del Sud Italia. Specialmente se teniamo in considerazione i beni essenziali».
La difficoltà di arrivare a fine mese, per chi vive nel capoluogo lombardo, dipende, paradossalmente, dalla sua capacità di offrire lavoro. «E’ una città fortemente attrattiva, da questo punto di vista. Ma lavorare a Milano significa, in genere, trasferirsi e viverci, dato che la scarsità dei mezzi di trasporto impedisce di fare i pendolari». Si crea, quindi, un circuito vizioso: «Aumenta la domanda e, di conseguenza, aumentano i prezzi di tutti i beni e dei servizi, a partire dagli affitti delle case. Chiunque sa benissimo che nel capoluogo meneghino l’affitto di un monolocale può arrivare a 750 euro, mentre in un paese di provincia si trova anche a 200».
Un altro elemento contribuisce a rendere Milano molto più costosa: «Basti pensare che il trasferimento di generi alimentari come frutta e verdura è ben più oneroso che altrove (ma questo vale per tutte le grandi Città), per il semplice fatto che si tratta di prodotti provenienti da fuori».
Va bene che il costo della vita è più alto per una dinamica di domanda e offerta; ma dove l’offerta di lavoro è elevata – verrebbe da pensare – il tasso di povertà dovrebbe essere più basso che altrove. «Non funziona così. Nella provincia di Milano vivono i due terzi di poveri della Lombardia, in Città un terzo: questo perché Milano è fortemente attrattiva per tutti i tipi di lavoro, anche per quelli più umili. Tutto il comparto dei servizi, ad esempio, non è, ovviamente, costituito esclusivamente da personale di alto profilo, ma anche da buona parte del cosiddetto “nuovo proletariato”; dove, tra l’altro, si sta giocando una partita di conflitto e competizione tra italiani e stranieri. Quest’ultimi, infatti, come è noto, sono quelli ormai sempre più disposti – a differenza degli italiani – a svolgere le mansioni più umili».