Standard and Poor’s si accanisce sull’Italia. Dopo il taglio del rating del debito pubblico, passato da A+ ad A, è la volta degli enti locali. Undici, tra Comuni, Province e Regioni, declassati di un “notch”, anch’essi da A+ ad A. Ma il governo, viene da chiedersi, non aveva varato una manovra “lacrime e sangue” allo scopo di dar garanzie alla Comunità internazionale sulla solidità del nostro debito e le relative capacità di solvenza? «Siamo, in realtà, di fronte ad un circolo vizioso. La manovra aumenta le imposte e taglia la spesa, ma questo ha un effetto frenante sullo sviluppo», spiega, raggiunto da ilSussidiario.net Carlo Buratti professore di Scienza delle finanze all’Università di Padova. In ogni caso, ad essere colpiti dal taglio, con outlook negativo (le previsioni sono di peggioramento) sono state le città di Milano, Bologna  e Genova, la provincia di Mantova, quella di Roma, e le regioni Sicilia, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, e Umbria. Torino, infine, resta stabile ad A. Ma con outlook negativo.  



«Il problema – sottolinea Buratti – è che ciò che conta davvero sono i parametri di Maastricht, che considerano il rapporto tra il disavanzo delle amministrazioni pubbliche e il prodotto interno lordo. Quest’ultimo, a causa delle misure della manovra, diminuisce o rimane stabile. A questo punto, i parametri continuano a non essere rispettati. Il declassamento dipende dal fatto che l’assenza di crescita del denominatore continua a non farci risultare affidabili». Per gli enti locali, tuttavia, le ripercussioni saranno pressoché nulle.«Il taglio del rating potrebbe comportare l’aumento dei tassi di interesse. Ma dal momento che la forma di finanziamento mediante l’emissione di obbligazioni negli enti locali è pressoché inesistente, ritengo improbabile un aumento sul tasso dei mutui». In Francia una sessantina di enti locali, tra Comuni e Regioni, ha dato vita ad una società che emetterà prodotti finanziari. A regime, nell’arco, cioè, di dieci anni, la struttura dovrebbe concorrere al fabbisogno di un quarto della spesa pubblica di questi enti, pari a circa 5 miliardi di euro. «Mi pare un’ottima idea – dice Buratti – perché in questo modo si ottengono condizioni migliori sul mercato finanziario: si fa una stima dei rischi, dando maggiori garanzie agli investitori e riducendo, inoltre, i prezzi di emissione».



Peccato che in Italia sarebbe una strada, di fatto, impraticabile. «I nostri enti locali hanno le casse piene di soldi. Ma il Patto di stabilità interna gli impedisce di spenderli. Si tratta di miliardi di euro che non possono essere utilizzati perché gli enti locali sono obbligati a migliorare i propri saldi finanziari». Se, tuttavia, emettessero obbligazioni o altri titoli, il saldo finale risulterebbe migliorato rispetto a quello degli anni precedenti. L’effetto, a quel punto, non sarebbe di uno sblocco delle risorse? «Non funziona così – risponde Buratti -; le entrate che derivano dal debito non possono essere considerate ai fini del Patto di stabilità».



Una situazione drammatica e paradossale: «Gli enti locali hanno i soldi in cassa, piani esecutivi, particolareggiati e già pronti e strategie di investimento ; e non possono spenderli neanche per completare le opere o per pagare i fornitori. Si tratta di una politica da rivedere interamente. Sbloccare la spesa per gli investimenti degli enti locali sarebbe il modo migliore e più veloce per far ripartire subito l’economia».