Alzi la mano chi, almeno una volta, non si sia domandato perché mai a una donna disoccupata con due figli venga chiesto di pagare più di 600 euro al mese per l’asilo nido comunale o a un anziano disabile che vive da solo venga negata la consegna dei pasti a domicilio da parte dei servizi sociali. La risposta sta in un acronimo: Isee. Che sta per “Indicatore della situazione economica equivalente”. L’idea, assolutamente condivisibile, è che chi se lo può permettere contribuisca al costo del servizio erogato dall’amministrazione comunale. E per stabilire il quanto, si sommano ai redditi dei componenti del nucleo familiare il 20% dei loro averi (saldo del conto in banca più eventuali case di proprietà, titoli, azioni, obbligazioni), poi si divide il risultato per un coefficiente che dipende dal numero dei familiari.
Peccato che, come tutti i conti, anche questi non tornino: la fotografia che restituiscono della situazione reddituale del richiedente non corrisponde quasi mai alla reale capacità di spesa. Basta avere solo metà della casa in cui si abita, per esempio, che la “situazione economica equivalente” schizza alle stelle, anche se non si ha un centesimo in tasca perché si è disoccupati da mesi con un mutuo ventennale sul gobbo. Per non parlare di quei 200 euro al mese di reversibile della moglie defunta, che fanno sì che anche il più solo e malato dei pensionati, per i servizi sociali, diventi un nababbo con tanto di servitù a cui i servizi sociali non possono essere utili. E chi ha tanti figli non può neppure contare su un occhio di riguardo da parte della pubblica amministrazione: dopo i primi tre, ogni pargolo in più riduce il gruzzolo calcolato tramite l’Isee di un’inezia (diversamente dalla Francia, per esempio, dove il terzo figlio pesa più dei primi due), nonostante l’innegabile aumento delle spese che una famiglia, se numerosa, deve affrontare. E così al danno si aggiunge la beffa.
Che il sistema Isee sia piuttosto iniquo e che la “situazione economica equivalente” non equivalga a niente di reale, evidentemente in questi anni non se ne sono accorte solo le famiglie: scovando tra le 48 pagine di una delle ultime delibere della giunta regionale lombarda, quella che porta il numero 2055 del 28 luglio, in mezzo alla miriade di provvedimenti che costituiscono la politica per la famiglia del governatore Roberto Formigoni si trovano due righe che, se non dicono molto, in realtà significano parecchio. Nel provvedimento si legge infatti che la Regione ha intenzione di intervenire con una “modifica delle modalità di accesso e compartecipazione ai servizi attraverso un modello che tenga conto anche dei carichi di cura familiari”.
Ebbene sì, si tratta proprio del famigerato Isee: andando a fondo alla questione, si scopre che nei prossimi mesi, in accordo con Anci, verranno identificati alcuni Comuni in cui sperimentare un nuovo sistema che tenga conto anche dei carichi di cura delle famiglie. Perché, anche se sulla carta quattro persone sono solo quattro persone, nella realtà ogni famiglia è un caso a sé, per non parlare dei nuclei in cui sono presenti situazioni di fragilità (disabilità, dipendenze, età avanzata, ecc.). Se la sperimentazione riuscirà a raggiungere lo scopo di una maggiore equità nella compartecipazione alle spese da parte dei cittadini, verrà poi estesa a tutti i comuni lombardi.
Già, ma se l’Isee è stato istituito da un decreto legislativo (il n. 109 del 1998), come può la Regione stravolgerne l’applicazione? Semplice: approfittando, se così si può dire, della solita superficialità italiana per cui, una volta approvata una legge, quasi mai ci si ricorda di adottare i regolamenti per la sua applicazione. Non solo l’art. 1 del decreto 109/98 parla di criteri individuati “in via sperimentale”, ma l’unico regolamento adottato in proposito, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 221 del 1999, aveva un’efficacia di soli tre anni. Gli altri regolamenti, come quello previsto dall’art. 3 del decreto, sui percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, non sono mai stati adottati. Nel frattempo, però, nel 2001 il processo di riforma costituzionale ha attribuito alle Regioni il potere legislativo esclusivo in materia di servizi sociali. Ergo, se la Regione vuole, la Regione può anche farne a meno, dell’Isee. O modificarne l’applicazione come meglio crede.
E di questo al Pirellone se ne sono accorti: a dicembre, su iniziativa della Giunta è stato avviato un progetto di legge, che porta il numero 66 e che attualmente si trova all’esame della terza commissione referente, il cui titolo, forse poco esplicativo, recita: “Modifiche ed integrazioni alle leggi regionali 12 marzo 2008, n. 3 (Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario) e 13 febbraio 2003, n. 1 ‘Riordino della disciplina delle istituzioni pubbliche e beneficenza operanti in Lombardia’”. In pratica la Regione, si legge nella relazione di accompagnamento, introduce un nuovo sistema di compartecipazione economica ai costi e di aiuto alle persone assistite e alle famiglie non più basato sui soli criteri Isee come definiti dal d.lgs. 109/1998, ma sul cosiddetto “Fattore Famiglia Lombardo” (la nuova denominazione lombarda dell’istituto del quoziente familiare). Il tutto attraverso la modifica di un solo articolo della legge regionale 3/2008, il n. 8, che riguarda i criteri per il riconoscimento di agevolazioni economiche nei casi di accesso a unità d’offerta sociali e sociosanitarie.
In sostanza, una volta approvata la legge, saranno i Comuni a stabilire la quota di compartecipazione al costo delle prestazioni sociali e sociosanitarie e lo faranno con le modalità stabilite dalla Giunta regionale in base a criteri che non terranno conto soltanto del reddito e del patrimonio del nucleo familiare. Verranno previste franchigie – quindi soglie di reddito da non considerare nel conto – da calcolarsi in base al numero dei componenti della famiglia, che correggeranno l’attuale distorsione dell’Isee che non prevede “sconti” per le famiglie numerose. Non solo: le equivalenze della situazione reddituale e patrimoniale terranno conto anche dei nascituri e dei figli in affido (che ora è come se non esistessero), di disabili, di anziani non autosufficienti, nonché della presenza di un solo genitore convivente (fattore attualmente penalizzante, in base alla logica che meno si è in famiglia, meno si spende). La rivoluzione riguarderà anche la retta dei ricoveri: nel caso di persone con gravi disabilità, si guarderà solo nelle tasche del diretto interessato, mentre nel caso di centri diurni e residenze sanitarie per anziani conterà anche il reddito e il patrimonio del coniuge e dei figli, se conviventi.
“La norma – specifica la relazione al progetto di legge – interviene su una materia che costituisce da anni motivo di contenzioso tra Comuni e Asl, da un lato, enti erogatori e assistiti, dall’altro, e che ha portato il Tar Lombardia a pronunciarsi ripetutamente sulla illegittimità dei regolamenti comunali in materia di Isee, disponendo spesso che il pagamento anche della quota non sanitaria (retta) del ricovero sia posta a carico del fondo sanitario regionale. Di qui l’urgenza di intervenire mediante un superamento sul piano legislativo della disciplina statale sull’ISEE e la definizione di una nuova disciplina ispirata a principi di equità e di concreto aiuto alle famiglie maggiormente bisognose”.
Ma il procedimento legislativo regionale ha i suoi tempi, quindi bisognerà attendere diversi mesi, prima che il progetto di legge n. 66 diventi una norma effettivamente applicabile. Nel frattempo, dunque, via alla sperimentazione. Per ora, in sordina.