Si chiama “Medici per tutti” ed essendo neonata non merita ancora l’avallo di un’approvazione piena; ma merita già tutta l’attenzione che si deve a un’idea insieme pratica, per certi versi rivoluzionaria, e certo dotata di una forte valenza politica provocatoria. La vara a Milano la Cisl, col supporto determinante di Carlo Bassi – imprenditore e manager, già amministratore delegato di FieraMilano International – ed è un’organizzazione che offrirà al pubblico indistinto prestazioni sanitarie private, sia diagnostiche e specialistiche, presso alcuni ambulatori convenzionati, al prezzo del puro ticket che dovrebbero pagare al Servizio sanitario nazionale.
In concreto, significa aprire un’alternativa reale per tutti i cittadini poco abbienti che finiscono incolonnati nelle lunghissime liste d’attesa che troppo spesso intasano ambulatori, laboratori e ospedali pubblici, dove poi comunque, arrivati al proprio turno, devono pagare un ticket che ormai per molte prestazioni è tutt’altro che una formalità.
Non che “Medici per tutti” abbia trovato la pietra filosofale che trasforma in oro qualsiasi materiale: è chiaro che si avvale della collaborazione di personale sanitario e parasanitario in molti casi giovane o giovanissimo, quasi sempre disoccupato o sottoccupato; ma è pur vero che del resto sobbarcarsi alla lista d’attesa delle Asl non fornisce chissà quali garanzie di qualità della prestazione che alla fine si riceverà.
Fin qui il dato di cronaca. Ma quale è il valore provocatorio dell’iniziativa, capace di far riflettere ben al di là dell’episodio milanese? È quello di evidenziare come i costi dell’apparato pubblico siano ormai molto lievitati, in molti casi al punto da permettere l’avvento di un’offerta di servizi privati (in questo caso addirittura welfare privato) che fino a qualche anno fa era impensabile. Ma com’è possibile un simile paradosso: che il privato si faccia bastare i soldi del puro ticket? Da dove nascono i sovraccosti che evidentemente appesantiscono i conti dei servizi pubblici?
La verità è che la spesa pubblica improduttiva si annida non solo nelle sue sedi celeberrime – i famosi forestali calabresi, più numerosi di tutti quelli a disposizione dello Stato canadese o gli altrettanto celebri cinquemila dipendenti della Regione Sicilia, il doppio della Lombardia; nossignore, la spesa pubblica improduttiva è come un male oscuro che ha pervaso tutto l’apparato pubblico, per cui, ad esempio, anche dentro le migliori Asl delle Regioni virtuose del Nord, Lombardia, Veneto e Piemonte, che hanno il bilancio sanitario in ordine, accanto a medici e paramedici dediti e impegnati, alligna sempre molto personale sottoutilizzato, selezionato per puri meriti politici e poi parcheggiato a far nulla negli uffici, parassiti che fanno crescere il costo dei servizi e non vi contribuiscono in alcun modo. E che è impossibile rimuovere, protetti come sono dai sindacati e/o dai loro padrini politici.
Di questa squallida ma inconfutabile realtà non sembrano accorgersi le teste d’uovo che, nel ridotto dei ministeri, partoriscono periodicamente prodotti di comunicazione sociale che veramente rischiano di sortire l’effetto contrario a quello voluto. È il caso degli anonimi inventori dell’ultimo spot dell’Agenzia delle Entrate, che nel pur condivisibile intento di far vergognare gli evasori del danno che arrecano al consesso civile, accredita l’idea che in Italia i servizi pubblici non funzionino perché non tutti pagano le tasse come dovrebbero. Il che è francamente surreale, visto che la pressione fiscale “reale” è intorno al 50% del Pil, un Pil – ricordiamolo – che oltretutto già sconta un buon 16% di economia sommersa che per definizione non genera gettito fiscale.
È mai possibile che per avere servizi pubblici efficienti un popolo debba pagare in tasse il 50% del suo Pil? È chiaramente un assurdo, peggio: un furto. Legalizzato, per carità, che va però a vantaggio esclusivo di pochi privilegiati, parassiti appunto, che lucrano stipendi – non dimentichiamo che la spesa pubblica improduttiva è essenzialmente costituita da stipendi – senza fornire alcuna prestazione corrispettiva di pubblica utilità.
È chiaro che incidere sugli organici (e sull’efficienza) della Pubblica amministrazione, sia centrale che periferica, è una sorta di tabù che nessun governo osa toccare, perché comporta l’immediata rinuncia a vaste fette di consenso oltre allo scontro sindacale frontale con tutte le organizzazioni del mercato: ma è pur vero che in questo modo non si può più andare avanti e che le pur encomiabili iniziative moralizzatrici del ministro Brunetta si sono rivelate all’atto pratico una semplice cura palliativa, ma non hanno risolto il problema alla radice, tanto più che una buona parte di esso è ormai annidata negli enti locali.
Far lavorare gli statali non è di destra, e semmai è di sinistra – nell’accezione egualitarista del concetto. Rubare lo stipendio è un furto allo Stato, né più e né meno che evadere le tasse. Qualcuno dica a quelli dell’Agenzia delle Entrate di ricordarlo, nel loro prossimo spot, agli interessati: che sono tanti, quanti e più degli evasori.