Si torna a discutere delle “forze che muovono la Storia”, attraverso grandi Cercatori che possono suggerire qualcosa all’uomo contemporaneo. Il ciclo del Centro Culturale di Milano “I Cercatori: Nietzsche, Dostoevskij, Péguy” lancia il prossimo personaggio: Dostoevskij. Il 16 gennaio si terrà il dialogo fra Tat’jana Kasatkina, presidente della Commissione Studio di Dostoevskij e lo scrittore e poeta Franco Loi, preceduti dalla lettura teatrale di Massimo Popolizio (doppiatore tra l’altro del Voldemort di “Harry Potter”). Abbiamo intervistato, per essere introdotti all’autore, don Fabio Baroncini, lettore appassionato di Dostoevskij.
In che modo Fëdor Dostoevskij è stato un “cercatore”?
Bisogna capire il genio di Origene. È Origene che decide tutta la metodologia del pensiero cristiano, che Agostino fa sua. È Origene che dà il metodo della ricerca. Come si arriva alla conoscenza? La ricerca che cos’è? È il fatto che io arrivo alla verità per una serie di passaggi nella realtà, oppure per euresis cioè per una invenzione, per una scoperta. Origene mostra come la conoscenza della verità si realizzi attraverso la gratuità di un incontro in forza di un avvenimento: qualcosa che uno scopre. Luigi Giussani è stato un genio in questo, perché ha esaltato sia la dinamica della ragione sia la dinamica della realtà, ed è interessante vedere come una cosa si sovrappone all’altra. Si è soffermato moltissimo sul fatto cioè che la conoscenza è sempre un “avvenimento”. Ecco, il genio assoluto di questa metodologia è un certo Dostoevskij.
In che senso?
Ci sono tre punte di questa genialità nella storia prima di Dostoevskij. Il primo è Dante. Per vedere e riconoscere la verità dell’esistenza storica, Dante sceglie la via della trascendenza. Non dimentichiamo che Dante stesso era di fronte al crollo di tutti i valori sui quali era costruita la società. Egli dunque va nell’aldilà, dove trova il fondamento del presente. In questo non è stato seguito, perché la società ha preferito seguire Petrarca che fonda invece la realtà sul sentimento: la verità del mondo è dentro il sentimento. L’altro genio che intuisce la svolta compiuta dalla società in seguito al grande evento che è la scoperta dell’America, è Cervantes. Lui per capire la verità del presente non va più nell’aldilà, ma nello spazio. Come Ulisse, che va in giro da tutte le parti per tornare a casa sua arricchito di un’esperienza. Questo passaggio verrà ripreso anche da Pascal, che definisce l’uomo come una canna in balia del vento. L’uomo, in tutta la sua grandezza, non è più collocato al centro dell’universo, è un puntino nel mondo. Il terzo punto che segna questa ricerca dell’umano è il genio di Shakespeare. Nessuno ha analizzato la psiche umana come lui. Se Cervantes aveva scelto la via dello spazio fisico, Shakespeare sceglie quella dello spazio psicologico.
E così arriviamo a Dostoevskij.
Esatto. Il passaggio è evidente soprattutto in Ivan Karamazov, che si identifica con l’intelligenza euclidea. Nella geometria euclidea ci sono tre dimensioni, la lunghezza, l’altezza e la larghezza, ma queste misure non riescono a spiegare il perché del male. In questa dinamica, alla verità si arriva per passaggi mentali. Contro questo metodo, che ridurrebbe l’uomo a tasto di pianoforte o a pedale d’organo, Dostoevskij inserisce una nuova categoria, una quarta dimensione dell’umano: la profondità. De Lubac lo dice molto bene: Dostoevskij sceglie la strada dell’immanenza dello spirito umano, non della trascendenza come Dante. Difatti tutta la ricerca di Dostoevskij è esattamente nella profondità, tutti i romanzi sono indirizzati esattamente in questa dimensione.
In cosa consiste questa profondità?
Lo si vede bene in un racconto molto significativo, che a mio avviso è il più simpatico, Bobok, dove il protagonista è già morto. Uno di solito dice “Una volta che sono morto, basta. Sono finito”, invece in questo racconto il protagonista scopre che la vera vita si conosce allora. Tutti quelli che vanno a visitare il cimitero, infatti, continuano a vivere e parlando rivelano autenticamente quello che sono. Ora, ciò che appare si rivela come la fenomenologia di ciò che si è. Quindi la ricerca in Dostoevskij si rivela nella profondità: la profondità umana non è matematica, non è meccanica, ma è dionisiaca, ribollente, lavica. Come dice anche Dimitri Karamazov ne I fratelli Karamazov: “Il cuore dell’uomo è il luogo della battaglia fra Dio e satana”. È sempre sua l’affermazione per cui l’uomo è troppo immenso, bisognerebbe rimpicciolirlo, proprio perché vede questa profondità. Ci sono poi, a partire da Memorie del sottosuolo, tutte le sfumature che può assumere il concetto di profondità. E ci si può vedere, in questa chiave di lettura, tutto il percorso umano che fa Dostoevskij stesso. Il culmine è ne I fratelli Karamazov, che deriva, come concezione, dagli insegnamenti di Solov’ev, impegnato in quegli anni nell’approfondimento della figura del Cristo. Figura richiamata soprattutto ne I fratelli Karamazov e nel famoso brano “La leggenda del grande Inquisitore”. È qui che Dostoevskij arriva a dire: “Ciò che abbiamo di più caro è Cristo stesso”.
Dostoevskij dice anche “Cristo è la verità, ma se mi dicessero che qui è Cristo e là è la verità, io abbandonerei la verità per aderire a Cristo”…
Questo è un passaggio che ha bisogno di una correzione. Don Giussani lo riprende nel suo libro Il senso religioso e soggiunge che lui sceglierebbe la verità perché la Verità è la strada che porta a Cristo, e ha ragione. Padre Scalfi, fondatore di “Russia Cristiana”, mi faceva notare durante un incontro in cui io citai questa interpretazione che in russo ci sono due modi per dire “verità”. In un senso si intende il manifestarsi del reale nel suo significato, mentre in un altro s’intende la verità in senso euclideo, matematico. Allora Dostoevskij intendeva questo secondo modo di dire “verità”. Per questo lui quindi dice “Se voi mi dimostrate che la vostra verità matematica è da una parte e Cristo dall’altra, io scelgo Cristo”.
Lei prima diceva che la scoperta della profondità rivela un’essenza “lavica” e “dionisiaca” dell’essere umano. Questo mette in rilievo come la ricerca di Dostoevskij non sia slegata dal clima del tempo in cui viveva…
La genialità di Dostoevskij sta nel fatto che spinge la ricerca in uno spazio dell’esperienza umana dove altri non sono riusciti ad arrivare con la stessa chiarezza. Lui esplora il sottofondo dell’animo umano che si rivela essere il più immenso e contraddittorio. Qui emerge un richiamo potente a Freud (anche lui era un grande cercatore, anche più forte di Nietzsche in quanto resiste ancora oggi nella nostra mentalità). Se prendiamo ad esempio il processo finale de I fratelli Karamazov c’è un momento in cui Mitja, interrogato e in preda alla febbre si alza e strepita “Chi non ha mai desiderato uccidere suo padre?”. Tornato a casa gli appare il diavolo – o meglio, non si capisce se sia un dialogo con il diavolo o un monologo con se stesso. Comunque, per come presenta qui Mefistofele, Dostoevskij si oppone alla figura del diavolo di Goethe. Il diavolo del Faust è creato per fare il male, ma non riesce e si trova costretto a fare il bene, perché Dio è più potente di tutto e riconduce tutto alla salvezza. Mentre in Dostoevskij il diavolo è davvero Lucifero, cioè l’angelo caduto. Lui infatti rivela, nel dialogo con Mitja, che vorrebbe davvero fare il “bene”, ma è costretto a fare il male. Il diavolo e il male sono necessari perché si possa realizzare la libertà umana, altrimenti tutto sarebbe meccanico. Da qui l’accusa a Cristo per non aver tolto la libertà all’uomo e sul carico di responsabilità a lui affidato in quanto potenzialmente libero di attuare una negazione, cioè il male. È qui che sta la genialità di Dostoevskij: spinge la ricerca fino in fondo all’esperienza umana. Non è un caso che certi brigatisti in carcere abbiano chiesto di poter leggere i suoi romanzi: lo sentivano come il più corrispondente alla loro esperienza drammatica.
E per quanto riguarda il legame con Nietzsche?
Innanzitutto bisogna capire che Nietzsche non è un filosofo, tant’è che gli hanno fatto dire tutto e il contrario di tutto. Quando insegnavo al liceo dedicavo molto spazio a Nietzsche perché mi sembrava che la questione della morte di Dio fosse decisiva. Lui ha spinto in fondo la teoria dell’evoluzione applicandola al pensiero umano, fino alla deificazione. “Andiamo al di là del bene e del male, sosteniamo la volontà di potenza” perché per riuscire a realizzare questa pienezza umana dobbiamo eliminare Dio. Questo è più profondo però in Dostoevskij, e lo si vede bene nella figura di Kirillov ne I demoni. Questo personaggio, in un passaggio del romanzo, ci ricorda che negare Dio e non capire che contemporaneamente si debba affermare che l’uomo è Dio, significa non aver capito niente. Solo che, per affermare che l’uomo è Dio, è necessario superare il limite della morte, cioè affermare la propria autonomia assoluta… fino a sopprimersi: Kirillov si suicida. È anche vero che le ultime poesie di Nietzsche sono degli inni a Gesù Cristo: le ha scritto quando era pazzo, però nella sua pazzia il suo amore a Cristo è impressionante. Bisogna comunque ricordarsi che era figlio di un pastore protestante e succube della madre e della figlia.
A volte leggendo Dostoevskij si ha la percezione di una mancanza. Come lo spiega?
Nel brano finale del mio intervento al Meeting di Rimini del ’96 sul tema della libertà in Dostoevskij dicevo: «Per Dostoevskij la possibilità di realizzazione della libertà dell’uomo è solo escatologica. Non c’è mai in lui l’esperienza, anche se iniziale, del compiersi la libertà nella storia. C’è un’evidenza della fede – Cristo come la salvezza dell’uomo – che non diventa mai certezza della possibilità di un cambiamento e di una costruzione storica». A sostegno di questa tesi cito sempre il brano finale di Delitto e Castigo: «Ma qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della rinascita di un uomo, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata. Potrebbe essere l’argomento di un nuovo racconto; ma il nostro, intanto, è finito». Dostoevskij non è mai stato in grado di descrivere che cosa accade all’uomo quando cade nelle mani del Dio vivente. Fa vedere cosa accade all’uomo distanziandosi da Dio, ma la positività no. Gli è mancato sostanzialmente l’incontro con la Chiesa, cioè con il sacramento come segno presente di un cambiamento entrato nella storia. È molto più luterano che ortodosso. E infatti non c’è in tutta l’opera di Dostoevskij la figura di un prete, o la chiesa come realtà, come edificio o come funzione. Tutto è nella profondità dell’io.