La manovra “Cresci Italia” promuove le aperture dei negozi e dei centri commerciali sette giorni su sette, inclusa quindi la domenica. Una misura che dovrebbe essere finalizzata a favorire la crescita. In alcune parti d’Italia, come in Veneto, è però già scattato lo sciopero delle commesse che hanno deciso di passare al contrattacco. A Milano non sono ancora iniziate forme di protesta di questo tipo, ma sia i sindacati sia Confcommercio si dicono fermamente contrari alla liberalizzazione degli orari. Padroni e lavoratori per una volta salgono insieme sulle barricate uniti dal no all’estensione del lavoro domenicale. Come sottolinea Simonpaolo Buongiardino, amministratore di Confcommercio Milano, “il pacchetto del governo mette a rischio la sopravvivenza dei negozi al dettaglio, che rischiano di scomparire perché schiacciati dai grandi centri commerciali, gli unici in grado di rimanere aperti tutte le domeniche. Il decreto di Monti finirà quindi per creare un grave danno proprio alla concorrenza, quel principio cioè che afferma di voler sostenere”.
Buongiardino, che cosa ne pensa dello sciopero delle commesse contro lo shopping di domenica?
La liberalizzazione degli orari domenicali consentirà alle strutture di grandi dimensioni di restare aperte sette giorni su sette. Evidentemente i lavoratori di queste strutture ritengono che in questo modo sarà compromesso il loro riposo domenicale. La loro protesta nasce quindi da queste considerazioni. Si tratta di una scelta che compiono alcune persone e che è tutelata dal diritto sindacale allo sciopero. Io ovviamente non sono un sindacalista, in quanto mi occupo dei datori di lavoro e non invece dei lavoratori. I sindacati confederali però si sono già espressi negativamente rispetto all’estensione delle aperture domenicali.
Qual è invece la posizione di Confcommercio?
La nostra posizione è moderatamente contraria. Noi riteniamo che non ci fosse bisogno di arrivare a delle aperture così prolungate e per così tanti giorni, perché quello italiano è un sistema commerciale aperto e pluralista, con diverse modalità di distribuzione come il piccolo dettaglio, i negozi di medie dimensioni e i discount. Queste realtà convivevano con delle regole collegate solo ad alcuni vincoli di orario e di giornate festive, mentre ora le liberalizzazioni fanno saltare tutto. Confcommercio sostiene che la riforma introdotta dal governo metterà in difficoltà i piccoli esercizi, e quindi rischia di danneggiare questa pluralità di offerta di servizio che rappresenta una ricchezza, che produce concorrenza, cioè proprio quel valore che si vorrebbe favorire aprendo indiscriminatamente. La nostra associazione di categoria dunque non è contenta della scelta compiuta dall’esecutivo, ne paventa i rischi, ma cercherà comunque di fare fronte alle necessità.
Il governo Monti non obbliga però i piccoli commercianti a restare aperti la domenica, se essi non desiderano farlo…
Indubbiamente no. Ma il commercio al dettaglio non ha il numero di dipendenti necessari per sostenere orari prolungati di apertura per 15-18 ore al giorno. Le liberalizzazioni del governo Monti portano quindi i piccoli negozi a subire la concorrenza agguerrita della grande distribuzione, che al contrario può coprire una fascia oraria più ampia. Questo rappresenta un danno per il dettaglio tradizionale, che soprattutto nelle vicinanze di questi centri rischia di non reggere il ritmo dell’orario di apertura. Le liberalizzazioni comportano inoltre l’estensione delle aperture domenicali, e quindi non c’è più né il riposo settimanale né la mezza giornata del lunedì.
Quali saranno le conseguenze dell’abolizione della domenica festiva?
Con la riforma del governo è a rischio la pluralità distributiva. Dal momento che nessuno è in grado di reggere 24 ore di apertura, per 365 giorni l’anno, ogni operatore sceglierà una propria fascia oraria a seconda di quello che ritiene più opportuno per lui, tagliando le fasce orarie meno redditizie. Questo è un impoverimento anche per il consumatore, che oggi per esempio ha la certezza di trovare i negozi aperti dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 19, mentre un domani non potrà più saperlo in anticipo. Rischiando così di recarsi a fare compere in una via, e di trovare aperto un negozio sì e uno no. Insomma, le liberalizzazioni di Monti creano una condizione di incertezza.
Il governo Monti sta cercando di rilanciare il commercio. Dal momento che non condividete le sue misure, voi che cosa proponete?
Non credo proprio, il governo Monti non si sta ponendo l’obiettivo di fare ripartire il commercio al dettaglio. Se il suo intento fosse questo, tutto ciò che dovrebbe fare sarebbe mettere più salario nella busta paga dei lavoratori e sgravare di tasse le aziende. Occorre quindi una minore opposizione fiscale per i dipendenti e per le aziende.
Quindi l’opposto di quello che sta facendo Monti?
Proprio così, tanto è vero che questa è una manovra recessiva che in quanto tale non ha nulla a che fare con lo sviluppo. Il commercio infatti è depresso perché è diminuita la capacità di spesa delle famiglie e delle persone, perché la situazione economica è quella che sappiamo. Se non c’è ritorno a una capacità di spesa delle persone, non c’è sviluppo del commercio.
Il governo Monti ha anche introdotto l’aumento dell’Iva del 2%. Quali effetti sulle vendite ha prodotto questa misura?
L’effetto è stato quello di provocare una diminuzione delle vendite. Lo dimostra il fatto che la stagione dei saldi di questo inverno è in calo del 4/5% rispetto alla stagione scorsa. Anche se non si può sapere con precisione se ciò dipenda dall’aumento dell’Iva, dalla crisi generale o dalle aziende che chiudono.
In questa situazione, che cosa può fare il Comune di Milano?
Palazzo Marino può intervenire per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza sociale, due valori che hanno ricadute positive per lo stesso commercio. Ma non può fare nulla per intervenire direttamente favorendo i negozi al dettaglio.
(Pietro Vernizzi)