Il martedì nero dello sciopero Atm ha sollevato, come prevedibile, un vespaio di polemiche e qualche rimbalzo di responsabilità. Oltre al caos dello sciopero, centinaia di persone sono rimaste bloccate nei sotterranei di alcune stazioni della metropolitana. Atm ha fatto sapere che si è trattato di semplici guasti sia per il convoglio si è fermato improvvisamente a Palestro che ha registrato un’anomalia alle porte, sia per il treno successivo che si è fermato in galleria, senza corrente, prima di poter arrivare alla stazione di Lima, dove le banchine erano già stracolme di pendolari. Da qui, sono scaturite scene di panico con gente intrappolata nel convoglio a luci spente e altri che tentavano di raggiungere il treno fermo attraverso la galleria per salire forzando le porte chiuse. Se il primo cittadino, Giuliano Pisapia dice “Quanto accaduto in metropolitana mi ha molto colpito e credo imponga a tutti noi una riflessione a partire dalla convivenza, difficile ma necessaria, tra diritti dei lavoratori e degli utenti”, il presidente dell’Atm, Bruno Rota ha assicurato che l’azienda ha rispettato tutte le procedure necessarie per garantire la massima sicurezza ai viaggiatori. Per IlSussidiario.net, abbiamo chiesto un parere a Marco Ponti, professore di Economia applicata al Politecnico di Milano.
Palazzo ha dichiarato che l’Autorità di garanzia sugli scioperi nei servizi pubblici ha aperto un’indagine per verificare se siano state garantite le prestazioni minime indispensabili nel corso della giornata nazionale di sciopero. E’ utile o solo una atto dovuto?
Dubito molto sull’utilità di un’azione del genere. Il concetto di “fascia protetta” è ormai diventato molto discutile. Dobbiamo tenere a mente che il mercato del lavoro e, conseguentemente gli orari, si sono evoluti, soprattutto nelle aree urbane. La mobilità delle persone è cambiata in modo straordinario ed è molto più articolata causando un appiattimento delle ore di punta. Le “fasce protette” potevano essere giustificate cinquant’anni fa quando le fabbriche aprivano e chiudevano tutte più o meno alla stessa ora.
Va ripensato, dunque, l’intero concetto di sciopero dei trasporti?
Certamente, non che debba essere messo in discussione la possibilità di fare uno sciopero perchè questo è uno dei diritti fondamentali della Costituzione. D’altro canto, occorre considerare che il settore presenta aspetti molto peculiari: basti pensare che se i lavoratori fanno un giorno di sciopero, l’Atm, il loro datore di lavoro, ci guadagna. Mentre nel settore privato lo sciopero ha un freno intrinseco, una sorta di bilanciamento nel fatto che il padrone ci perde ma, dall’altro lato, la protesta deve avere dei limiti. Del resto, è matematico che se l’azienda va in perdita e fallisce, il lavoratore non può che perdere il lavoro.
Per Atm, invece?
In questo caso, il datore di lavoro è un ente pubblico che non può fallire. In secondo luogo, ci guadagna perchè i guadagni da traffico perduti risultano minori del costo del lavoro che non viene pagato. Alla fine, a rimetterci sono sempre e solo gli utenti del trasporto pubblico.
D’altra parte, attraverso lo sciopero i lavoratori Atm rivendicano il mancato rinnovo del contratto da più di cinque anni.
Questa è solo una faccia della medaglia. Se andiamo a guardare il costo medio del lavoro, e con questo mi riferisco non a ciò che va in tasca al dipendente, notiamo una disparità molto forte con il settore privato. Nel pubblico questa cifra si aggira intorno ai 50mila euro all’anno mentre nel privato parliamo di 38mila euro: un gap notevole che va aggiunto al fattore dell’illicenziabilità. Un discorso che oltre ai trasporti urbani coinvolge in pari misura anche le ferrovie.
Come risolvere, dunque, questo empasse?
Occorre una negoziazione molto trasparente fra le parti in causa dove vengano messi sul tavolo i fattori che accennavo prima: il costo del lavoro, la produttività, le risorse pubbliche che oggettivamente sono molto diminuite e il fatto che i danneggiati siano solo gli utenti.
La precettazione non è, quindi, un arma da tenere in considerazione?
Non credo proprio che quella sia la strada da seguire. Anzi, avrebbe l’effetto di esasperare i rapporti fra le parti. Non dimentichiamo che all’interno della cifra relativa al costo del lavoro, cioè 50mila euro, esistono disparità salariali molto forti. Accanto a neo assunti che, pur lavorando molto, vengono pagati al minimo esistono persone che lavorano meno ma vengono retribuiti con stipendi molto alti. Credo che, a questo punto, una riflessione complessiva sia necessaria.