In tema di “carceri” ci si divide solitamente tra “buonisti” e “intransigenti” più che in destra e sinistra. Prima dell’ideologia, però, guardiamo alla realtà del sistema milanese e italiano. Colpisce che nella sola prima metà dell’anno, il totale delle morti tra i detenuti è di 94, 34 per suicidi. Colpisce anche che nello stesso periodo sono 7 gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Segno che dietro le sbarre custodi e custoditi condividono, come ha detto qualcuno, “il medesimo destino di frustrazione e prostrazione”.



I problemi li conosciamo bene tutti: primo fra tutti quello del sovraffollamento. Tuttavia c’è anche il problema del lavoro. E qui già ci si potrebbe dividere in buonisti e intransigenti. E allora è giusto uscire dall’angusto schema dell’alternativa unica e rifarsi al nostro ordinamento ricordando a tutti l’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il lavoro, quindi, è un trattamento conforme al senso di umanità e tende a rieducare il condannato. In una dichiarazione riportata il 15 luglio scorso su il Sole24ore il Ministro Severino affermava a proposito del ddl del governo su depenalizzazione, messa alla prova, ricorso a misure alternative al carcere: «Tutte le statistiche ci dicono che se i detenuti lavorano c’è un calo di 2/3 della recidiva e che chi usufruisce delle misure alternative torna molto meno a delinquere. Le misure all’esame del Parlamento, quindi, aumentano la sicurezza collettiva».



A Milano noi ne abbiamo l’esempio. Nel carcere di Bollate, per esempio, il lavoro dimezza il tasso della recidiva: se quello nazionale è di circa il 60%, lì è del 30%. Se si effettua qualche calcolo grossolano ci si fa un’idea approssimativa di cosa potrebbe accadere se in Italia tutti i livelli responsabili ragionassero nei termini in cui lo stiamo facendo noi oggi: su una popolazione carceraria di circa 66mila detenuti, quelli recuperati alla società potrebbero aggirarsi intorno ai 46mila. Se si considera che, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero, il costo giornaliero per detenuto è di 132 euro, risparmieremmo all’anno circa 2.216.280.000. Così, in tempi di spending review, otterremmo il doppio risultato di tagliare la spesa improduttiva e al tempo stesso recuperare uomini. Questo è un investimento nella sicurezza della collettività che, forse, vale la pena fare per davvero.



Per questo posso dire con orgoglio che l’opposizione ha fatto recepire al Comune di Milano, con un apposito emendamento al Piano del welfare, il Protocollo d’intesa firmato il 20 giugno scorso tra DAP e ANCI. In particolare abbiamo riaffermato la necessità che l’Amministrazione si faccia promotrice presso altri enti pubblici (come Asl e Camera di Commercio), ed eventuali associazioni di categoria, di un Accordo quadro che faccia una ricognizione ed un monitoraggio di tutti i lavori che possono essere svolti da detenuti, nell’ottica poi anche di «agevolare le deliberazioni della Magistratura di Sorveglianza in relazione all’ammissione» dei condannati in via definitiva a misure alternative alla detenzione, «quando in costanza di progettazioni e programmazioni delineati nell’ambito del protocollo» del 20 giugno.

Nell’ambito di questo eventuale Accordo quadro l’Amministrazione potrebbe, poi, ipotizzare anche la possibilità di creare una sorta di “banca dati” di alloggi di proprietà degli enti sottoscrittori e immediatamente disponibili per i giorni seguenti l’uscita dalla galera. Dico ciò perché è risaputo che, spesso, una persona che esce dal carcere – specie se straniera – non ha neppure un luogo fisso dove recarsi, e ciò nella maggior parte dei casi vuol dire essere costretti a vivere d’espedienti e, quindi, tornare a delinquere. L’eventuale “banca dati” dovrebbe altresì tenere in considerazione la domanda abitativa degli agenti della polizia penitenziaria, spesso costretti a vivere nelle stesse condizioni dei detenuti, o a pagare affitti sproporzionati rispetto al loro stipendio mensile.

L’Amministrazione comunale in questi anni ha fatto e può ancora fare molto. Tuttavia non si può nascondere, soprattutto entrando in una casa circondariale come S. Vittore, dove sono presenti per lo più detenuti in attesa di giudizio, che c’è un problema legato alle decisioni non più rinviabili da parte di altre sfere istituzionali. E mi riferisco in particolare a Parlamento e Governo. E non lo dico per fare una polemica di parte, ma perché – anche qui – ce lo dicono dati di realtà. Nella sola Lombardia, per esempio, su una popolazione carceraria di 9.488 detenuti, 3.847 sono ancora imputati, di cui 1.880 nel processo di primo grado. Si evidenziano allora per lo meno due problemi strutturali che chiedono un ripensamento: l’uso della custodia cautelare e i tempi processuali. Si noti che, a tal proposito, nel solo 2011 ben 8 sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) hanno condannato il nostro Paese per la violazione del diritto ad un equo processo.

Rispetto ai due problemi elencati – specie per quanto riguarda la custodia cautelare – va anche ricordato, a onor del vero, quello che scrisse Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame: credere agli untori non giustificava credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora lo fossero, «come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio». Quanto scrisse Manzoni, prima ancora che ad un processo di nuova codificazione e di riforma di sistema, attiene alla capacità di discernimento e di giudizio propria di ciascuno. E di questo deve averne cura soprattutto chi commina pene e chi ha il compito di farle eseguire.

I suggerimenti sin qui accennati a mo’ di provocazione vogliono offrire solo lo spunto per comprendere bene che i temi della sicurezza, della giustizia e dell’esecuzione della pena stanno tutti e tre insieme, direi quasi: simul stabunt, simul cadent. Non si può parlare dell’uno senza considerare insieme anche gli altri due. La politica, dunque, deve saper approcciarsi con uno sguardo di insieme ad ognuno di questi tre temi, senza isterismi, né partigianerie. Ed essere consapevole che dal modo di affrontarne anche solo uno si verificano conseguenze e ripercussioni sugli altri.