Il Sussidiario.net pubblica tre racconti in tre puntate, tratti da Vacanze Milane – La città della cura, cura della città, terzo volume del progetto “Le nuove meraviglie di Milano”, curato da Luca Doninelli per il Centro Culturale di Milano. “La rinascita delle città, la conservazione dei tesori della letteratura antica, il fiorire dei commerci, il sorgere di istituti di credito non si spiega solo con il calcolo degli interessi: solo la larghezza di un dono può produrre le premesse di un’esperienza umana collettiva come una civiltà. Le condizioni politiche, economiche e culturali del tempo presente ci obbligano, oggi, a tornare con rinnovato interesse all’alba dell’Occidente, e non più al suo tramonto. Su questa speranza, confortata da mille segnali positivi, si fonda lo sguardo, mio e dei miei compagni di cammino, sulla nostra amata città” (dall’introduzione di Luca Doninelli al volume).
Si parte con “Il beige”, di Paola Caronni (sezione Cure-Accompagnamenti) dove si racconta l’accompagnamento della amatissima nonna all’ospizio.
Al di sotto di questa baraonda di piatti portati e riportati, di cibo tritato e di odori mischiati, di declamazioni a voce alta e di parolacce sottovoce, continua il cicaleccio della tv accesa in un angolo, con le trasmissioni popolari del mezzogiorno.
Un peruviano ti ha pettinato e ti ha fatto i complimenti per i tuoi bei capelli, che invece io vedo corti e con direzioni impreviste, prima di metterti a letto e tirare le tende.
Fa sempre così, ma poi si addormenta – mi dice, come se potesse consolarmi il pensiero; anzi mi gela il cuore.
Non posso far altro che andarmene, lasciandoti nella stanza in fondo al corridoio, ma è come se tu fossi in prigione e io tenessi le chiavi nella mia mano.
Pantaloni orribili, come quelli di un pigiama, di felpa rossa: questa volta mi arrabbio davvero. Ma a cosa servono le etichette con il nome che ci hanno fatto cucire sul vestiario se poi prendono i vestiti a caso; vorrei veramente che fossero cambiati subito, ma più che l’irritazione fa la mia evidente incapacità di spiegare bene la portata dell’oltraggio, dato che mi si blocca in gola un nodo come se si fossero scatenate contro di noi tutte le ingiustizie del mondo, e uno stupido paio di pantaloni infilati per distrazione siano il simbolo di tutte le ultime offese che hai dovuto sopportare.
D’altra parte è vero che solo io sono scandalizzata, tu mantieni la tua indifferenza; quanto tempo è passato da quando mi hai insegnato le sfumature del beige.
Parecchie volte abbiamo discusso se, alla tua età, era lecito vestirsi con i colori chiari soprattutto per andare a messa; io ridevo, e comunque ti avevo quasi convinto che i colori chiari stanno molto bene a chi ha i capelli bianchi.
Quanto ci hanno accompagnato questi discorsi sui vestiti fatti a tre, nonna figlia e nipote; sulla necessità delle sottovesti per le gonne leggere, che sono trasparenti e fanno vedere le gambe; sulle calze, tassative anche in agosto; e metti almeno un po’ di tacco, che ti si ingrossano i polpacci; giuro che quando venivamo a trovarti ho provato spesso a cambiare vestito.
Ancora adesso quando compro qualcosa da mettere controllo l’etichetta della composizione, e mia mamma umilia i commessi distinguendo veloce sul bancone la camicia di lino che ha chiesto da quelle di cotone.
Ti ricordo ancora in piedi con il braccio teso a sorreggere alto un vestito da sera perché non toccasse terra, dargli una piccola scossa per farlo ondeggiare in tutta la lunghezza e dirmi tutta soddisfatta “Però … è semplice ma ha un sapore”; facevi scorrere la mano come per togliere qualche invisibile filo o per lisciare la stoffa. E quel sapore che dicevi, me lo sentivo proprio in bocca; sarebbe stato il movimento del passo, l’arrotolarsi sulla caviglia, lo scivolare del tessuto dietro la vita.
Così parlavamo del beige, il colore più elegante, e il più difficile da indossare.
Perché infinite sono le sfumature del beige, colore bastardo e raffinatissimo.
Come parlino le case, con le loro facciate, le scale, le finestre, l’odore nell’ingresso non so.
Non so se per ciascuno le impressioni siano diverse, se alcune case abbiano estimatori perché ci sia qualcosa che accomuna il visitatore alla casa, che entrando ritrova qualcosa che gli viene dal passato o riconosce anche senza averlo mai visto.
So che questa casa si ricorda per i soffitti alti e le porte a doppia altezza laccate di bianco, e i pavimenti a mattonelle di graniglia nell’ingresso e in cucina mentre nella sala e nelle camere le mattonelle arancioni sono incorniciate lungo tutti i confini da greche bianche e nere ad intarsio.
Saprei dire dove sono le piastrelle incrinate o dove addirittura sono sbreccate, dove sconnesse.
La conosco in tutte le stagioni, le camere da letto gelide per la maggior parte dell’anno, il bagno gelido anch’esso e che si raggiunge con uno scalino altissimo, perché il locale fu costruito a posteriori sopra l’arco del portone d’ingresso; poi il caldo dell’estate lasciato fuori dalle imposte chiuse, dietro le quali ogni ora del giorno fa il suo proprio rumore.
Sul tavolo della cucina le eterne preziose tazzine da caffè quando c’erano ospiti e sul gas la napoletana appena capovolta; una sera di primavera inoltrata ci furono anche cartoni pieni di sacchetti di tulle per i confetti; altre sere il tegame d’alluminio rovente con la bistecca fuori orario per chi tornava dalla scuola serale. Per innumerevoli mattine tazze per la colazione sulle tovaglie linde e lise, ciascuno la sua tazza, piccola per il caffè scuro e veloce, larga al bordo e un cerchio più piccolo per base per il caffelatte; una tazzona accogliente zeppa di pane del giorno prima, la fretta di chi esce, la freschezza degli abiti appena indossati e della pelle appena lavata. Innumerevoli, sempre uguali solo per chi non notava dei piccoli cambiamenti che lentamente con il tempo si introducevano, biscotti diversi, lo zucchero raffinato più bianco, una tovaglia sostituita e che si ritrova ridotta in stracci accuratamente orlati, briciole di movimenti in avanti che si trasformano in valanghe di tempo trascorso, che si misura nella sua portata solo quando si ha il momento di pensare e rivolgersi indietro.
Adesso l’eco delle voci di bambini e i passi innumerevoli, veloci o felpati, li posso ricordare solo io così come li ho sentiti e immaginati, come si sono accumulati per vite intere.
Già si può entrare solo con parecchie sferraglianti mandate di chiave, lì dove si passava d’estate solo attraverso una tenda, una trama pesante piena d’odore di sole e calore, e dove comunque la chiave per molto tempo rimase appesa ad un gancio all’esterno; due porte, una laccata di grigio all’esterno, una specie di bussola, un’altra interna a vetri smerigliati.
Tutto sembra più piccolo, più misero, i mobili si stagliano sulle pareti stranamente sporche; sembrano diversi, male accompagnati tra loro, staccati dalle pareti sulle quali, mai notate, gettano ombre.
La casa ha pur continuato a vivere senza che ci ricordassimo di lei, sommersa in un silenzio sottomarino: dalle finestre chiuse avrà avuto le stanze attraversate da riflessi verdastri di temporali, o rischiarate da mattinate di bel tempo: è in queste giornate che immagino sarà stata più impaziente di risentire aprirsi porte e finestre, di ascoltare voci e suoni.
Non si deve dimenticare che ogni giorno passato per noi è passato anche per lei.
Avrà ascoltato gli scricchiolii e i gemiti del legno, l’impercettibile consumarsi delle stoffe, il cedere di una cucitura, il lieve contrarsi delle imbottiture; lo sgretolarsi lento di alcune pagine dei nostri libri, i bordi che cambiano colore e diventano giallo ocra e poi marrone biscotto, le pagine che tengono schiacciate una contro l’altra righe di parole mai dimenticate ma non più lette.
L’impressione violenta della fine me la dà curiosamente il vecchio Rex, il frigorifero dalle porte bombate con la coroncina di metallo applicata sul marchio, che adesso è del tutto silenzioso, niente più vibrazioni e sussulti; e il cuscino con le rose sulla poltrona, che ha ancora l’impronta del tuo appoggiarti.
(Paola Caronni)