Milano è un caso unico nella storia mondiale. Come si spiega la sua centralità, una centralità non politica, ma, come dice l’economista Giulio Sapelli, da «sistema nervoso»? E il fatto che a Milano, rispetto ad altri nuclei urbani europei che sono capitali dell’industrializzazione, ci sia più uguaglianza e meno povertà? E’ in libreria La città che sa cambiare. Indagine su economia e società a Milano, di Luigi Vergallo (Ed. Guerini e Associati). L’indagine analizza le grandi trasformazioni economiche e sociali che Milano ha vissuto e sta vivendo, e mostra come solo ridefinendo continuamente se stesso il territorio milanese riesca a mantenere la sua forza di traino per tutto il Paese e a elaborare reti sociali solidali.



Il volume verrà presentato oggi, venerdì 14 dicembre, alle ore 17.30 presso il Centro Culturale di Milano, in via Zebedia 2, durante la Giornata della Sussidiarietà organizzata in collaborazione con la Compagnia delle Opere di Milano e durante la quale verrà consegnato il Premio San Bernardo  a tre opere sociali che hanno sviluppato azioni solidali, educative, economiche ed assistenziali particolarmente significative. Proponiamo di seguito la Postfazione al volume, che contiene un dialogo tra Giorgio Vittadini e Giulio Sapelli.



Giorgio Vittadini. Nel volume l’autore afferma: «Mentre Milano città perdeva popolazione operaia, il capoluogo lombardo iniziava ad acquisire sempre più centralità economica, benché non politica, nei confronti dell’ampia regione urbanizzata poi talvolta definita megalopoli lombarda. Al contrario, verso il centro della città convergevano i servizi centrali dell’impresa, in particolare le funzioni di controllo e finanziaria». Quindi, se, da una parte, Milano non diventerà mai determinante nei destini politici della nazione, dall’altra, la sua forza economica sarà sempre traino per lo sviluppo dell’intero Paese, anche nel momento in cui perderà l’industria, e anzi, proprio dopo questa fase, diventerà in qualche modo megalopoli padana. Come è potuto accadere?



Giulio Sapelli. Milano non ha perso centralità economica, secondo me, perché ha perso, sì, popolazione operaia, ma le industrie hanno mantenuto qui i loro centri direttivi; e poi, cosa fondamentale, ha saputo attrarre le nuove eccellenze economiche, politiche, estetiche della globalizzazione. Milano è un caso unico nella storia mondiale, basti pensare a città come Manchester, Birmingham o la stessa Londra che hanno impiegato vent’anni per rinnovarsi dopo la fase di deindustrializzazione. L’altro fattore di rilievo che spiega la centralità del capoluogo lombardo è il peso che la finanza, nel bene e nel male, ha via via assunto. Prima della recente fase di finanziarizzazione dell’economia, avevamo banche molto più solide a sostegno dell’industria (si pensi alla Cariplo, alla Cassa di Risparmio…), ma oggi le banche sono più internazionalizzate. Inoltre, come emerge dall’indagine qui condotta, molta parte della popolazione che girava intorno alle fabbriche si è in breve tempo riconvertita a lavori autonomi o ad attività di commercio e di servizio, però avanzato o qualificato. Questo ha fatto sì che Milano assumesse una nuova centralità. Come sempre, nella sua storia, una centralità non politica, ma, si potrebbe dire, da «sistema nervoso». In Lombardia, bresciani, bergamaschi, eccetera si sentono autonomi politicamente: Milano non esercita un’egemonia, diversamente, ad esempio, da Venezia in Veneto, per non parlare di Torino in Piemonte, nonostante centri come Cuneo siano molto più avanzati di Torino.

Vittadini. Negli anni oggetto dell’indagine, gli imprenditori a Milano sono aumentati. L’affermarsi della piccola impresa milanese è conseguenza diretta del venir meno della grande impresa?

Sapelli. Sì, infatti a Milano ci sono moltissime piccole e medie imprese di prima generazione, massimo di seconda, che sono nate negli anni Settanta-Ottanta, quindi sono imprese giovani. E poi, mentre, ad esempio, in Piemonte l’impresa viveva fino a quando viveva il fondatore perché i discendenti di fatto non la sapevano portare avanti, a Milano accade più facilmente che gli imprenditori abbiano figli in grado di seguire lo sviluppo dell’impresa. Si pensi al caso della Bracco: un’azienda che era una farmacia ed è diventata una multinazionale grazie a generazioni di imprenditori sempre «sul pezzo».

Vittadini. Il terzo aspetto di questo capitolo «occupazione» è la cosiddetta terziarizzazione delle imprese, che da aziende manifatturiere divengono, in prevalenza, aziende di servizi nel mercato globale.

Sapelli. Esattamente. Milano diviene città degli headquarters di aziende italiane ed europee di grandi dimensioni e città di servizi avanzati all’impresa: servizi tecnologici, ma anche moda e design, che sono grandi propulsori d’innovazione. Basti pensare all’uso del legno, delle plastiche, delle resine, alla nuova ondata d’innovazione nella chimica fine, che viene dal design e dalla moda, perché gran parte delle cose che noi indossiamo non sono fatte di fibre naturali.

Vittadini. Un ulteriore aspetto è quello del reddito. Dalla ricerca emerge che la disuguaglianza tra classi a Milano, rispetto alle altre città italiane ed europee, è sempre stata più contenuta, non vi sono state situazioni di emarginazione come quelle, ad esempio, di Londra o Parigi. La stessa ricerca però prevede che, a seguito della crisi che stiamo attraversando, nel 2015 Milano sarà interessata da una situazione di impoverimento e di disuguaglianza tra classi che non si era mai registrata prima. Come commenti questa analisi?

Sapelli. Nelle prime fasi dell’immigrazione, a Milano è arrivata gente da tutte le zone povere d’Italia, dal Polesine, dalla Calabria, eccetera. Tuttavia, mentre, ad esempio, a Torino gli immigrati erano sottoposti a un regime di «reclusione» (alla mia famiglia fu rifiutata due volte la casa quando scoprirono che mia madre era nata in Sicilia), a Milano non sarebbe mai successo. La borghesia qui era molto più evoluta e la Chiesa cattolica molto aperta, a differenza di quella piemontese. Inoltre, anche grazie a un sindacato riformista che fece della lotta per l’aumento del salario una sua caratteristica, il reddito dei lavoratori aumentò, stabilendo una situazione di maggiore uguaglianza tra i lavoratori. Teniamo conto che qui non c’era la FIAT, ma imprese più avanzate e piccole e medie imprese che pagano meglio l’operaio. Come siamo arrivati allora ai dati sconcertanti di oggi, quali l’1% che possiede il 40% della ricchezza? La risposta è semplice: è arrivata la finanza, i top manager delle grandi banche, e questo ha sconvolto la stratificazione sociale. Se pensiamo che Raffaele Mattioli, che è stato l’uomo più potente d’Italia alla fine degli anni Sessanta, appassionato di libri, aveva un taccuino su cui aveva segnato «I libri che non posso permettermi»… adesso i manager si comprano le isole!

Vittadini. La disuguaglianza non dipende, quindi, dalla presenza degli immigrati, come documenta la ricerca di Giancarlo Blangiardo dell’anno scorso, L’immigrato una risorsa a Milano, che mostra come gli immigrati a Milano stiano diventando imprenditori. Si può dire che si sta assistendo a una disuguaglianza verso l’alto?

Sapelli. Infatti, a Milano non si è abbassata la qualità della vita. In città come Bari, Cagliari, si vede cos’è la povertà. A Milano no, qui non si è schiacciato il reddito, ma si è alzato quello dei ricchi, sono arrivati i Profumo, i Passera, i Micciché…

Vittadini. Questa situazione è suffragata dai dati dell’ultima parte del secondo capitolo, dove si rileva come Milano abbia sempre affrontato la povertà, sia con l’intervento pubblico, sia con la carità e con l’iniziativa privata, in modo omogeneo, inoltre il tentativo di elevare il livello minimo è stato costante.

Sapelli. Qui emerge una caratteristica molto bella di Milano: la gente fa la carità senza apparire. Anche in base a quello che studio posso dire che a Milano c’è pochissima marginalità. Ci può essere la povertà, ma non la marginalità. Gli unici ai margini sono i rom, che sono una piccolissima entità, più che altro usata a fini propagandistici. Per il resto, anche i «barboni» in mezzo alla strada a Milano, rispetto ad esempio a Roma, sono davvero pochi.

Vittadini. Dopo reddito, uguaglianza, povertà, il quarto aspetto della ricerca riguarda il confronto con le regioni europee. La Lombardia è tra le regioni europee più sviluppate, fa parte della cosiddetta «banana blu», quell’area che parte dalle zone industrializzate dell’Inghilterra, attraversa la Germania e scende fino a Milano. Quest’area corrisponde al punto più sviluppato dell’Europa, un motore vivente a cui Milano e la Lombardia partecipano, ed è costituita da regioni che fanno parte di Stati diversi: una zona che vive già al di fuori delle nazioni e ben al di fuori di aree delimitate come quella padana. Il fatto che Milano sia dentro la «banana blu» significa forse che dobbiamo arrenderci al fatto che, nonostante gli Stati nazionali, la differenziazione tra regioni rimane dominante e che occorre considerare queste differenze delle opportunità, visto il valore di traino per lo sviluppo che, di fatto, rivestono?

Sapelli. Non c’è dubbio che, come si legge in La conquista pacifica di Sidney Pollard, storicamente l’area dello sviluppo europeo partiva dal Sud di Londra, attraversava la Manica, passava da Amburgo, con qualche sfrangiatura verso Rotterdam, i Paesi Bassi e finiva a Milano. Non per niente sono i luoghi della guerra dei Trent’anni prima, dei Cent’anni dopo tra Spagna e Francia e poi ancora delle guerre di successione spagnole, guerre fatte per i Paesi Bassi e per Milano, con lo scopo di guadagnarsi una via alternativa al mare per far transitare le merci (Carlo V parlava di Milano come della pupilla dei suoi occhi). Comunque, la cosa interessante è che in questi ultimi cinquant’anni la Lombardia è diventata, da punto estremo di questa banana blu, punto iniziale di una coda che attraversa l’Appennino, passa per l’Emilia-Romagna, va nelle Marche e da lì fino in fondo all’Adriatico, arriva nello Stato pontificio che prima era stato sempre estraneo a dinamiche di sviluppo. Quindi, c’è una colonna vertebrale della manifattura, con tutti gli annessi e connessi di servizi, eccetera, che comincia da Pescara e sale, attraversa l’Appennino, passa per una parte della Toscana (Prato, Pistoia, Empoli) e risale in Lombardia, che secondo me è la regione più ricca del mondo, dal punto di vista della diffusione della qualità e della speranza di vita.

Vittadini. Il dato di oggi è meno 8% di produzione industriale italiana, ma non compaiono mai i dati regionali, quasi che questo possa minacciare l’unità nazionale. Ma senza considerare anche le varianze non si sta davvero descrivendo cosa succede.

Sapelli. Oggi il 75% del PIL italiano è fatto in Veneto, in Emilia-Romagna e in Lombardia. La cosa interessante che la globalizzazione fa emergere è il ritorno al locale, a macchia di leopardo. Anche all’interno delle stesse regioni, l’area amministrativa non ha più rapporto con l’area economica. Gli Stati nazionali, in un mondo globale, non rappresentano più il bacino dell’economia perché sono troppo piccoli, ma sono anche troppo grandi rispetto alle regioni che al loro interno hanno una variabilità altissima. Questa realtà dei fatti dovrebbe portare a concludere che nemmeno il livello regionale è adeguato al governo e allo sviluppo del territorio, ma lo sono i comuni, così come proposero gli studi di Adriano Olivetti e Massimo Severo Giannini, in cui si prefigurava la necessità di uno Stato forte fondato sulle autonomie comunali.

Vittadini. Del resto, la Francia nel Medioevo si sviluppa attorno all’Île de France da cui nasce Parigi; l’Inghilterra si evolve a partire da Londra, la Spagna è la corte imperiale che gira intorno a Madrid, ma l’Italia, le Fiandre, la Germania si sviluppano dai comuni, la loro unità come Stati arriva dopo. Oggi è come se questa natura tornasse fuori. Brescia, Bergamo, Como… contano molto di più di analoghe città francesi, britanniche, spagnole.

Sapelli. Come, del resto, conta molto Avellino al Sud o Cosenza, che è la parte sana della Calabria, perché c’è un livello di vita migliore, ci sono piccole imprese, c’è l’artigianato, c’è l’industria dei dolciumi.

Vittadini. Si può concludere che questo studio su Milano ci riporta ad affermare la centralità del comune.

Sapelli. E quindi ci aiuta a farci una ragione del perché Milano non abbia creato intorno a sé un grande Stato territoriale, ma sia diventata una città importante, laboratorio di sviluppo sociale, oltre che economico, che può essere un utile esempio anche per altre città.

Vittadini. Anche a livello mondiale.

Sapelli. Con in più il vantaggio, secondo me, che rimane una città e non una metropoli. E infatti qui la gente si sente milanese perché percepisce i confini della città.