Caro direttore, «Chi canta prega due volte». L’ho letto in un cartello piazzato all’interno di una chiesa milanese. Con tutta evidenza, il parroco si era stufato di dover richiamare i fedeli a una maggior «partecipazione» in tal senso e aveva affidato il monito alla carta (com’è noto, se verba volant, scripta manent). Pare che l’abbia detto sant’Agostino. La citazione esatta, tuttavia, sarebbe questa: Quis bene canet, bis orat. Cioè, chi canta bene è come se pregasse due volte.



Dunque, non è il semplice unire la propria voce al coro che fa la differenza. Sia come sia, è però evidente che Agostino si riferiva al canto dei suoi tempi, quello che il suo padrino, sant’Ambrogio, stava sistematizzando (canto «fermo ambrosiano», ben più solenne e austero del successivo «gregoriano»; e, soprattutto, privo di strumenti musicali). Mica poteva sapere che la sua frase sarebbe stata utilizzata dal clero del terzo millennio per ottenere la tanto sospirata «partecipazione» dei fedeli all’«assemblea liturgica» che il prete «presiede». Così, quando l’intero uditorio si mette a cantare a squarciagola i pezzi numerati imposti dal complessino pop, finalmente la «celebrazione eucaristica» può dirsi pienamente «partecipata», con grande soddisfazione del «presidente» che magari ha interrotto a metà il rito per arringare l’uditorio che cantava poco o piano.



Nella chiesa della mia parrocchia c’è un organo a canne enorme, bellissimo e quasi spropositato. Esegue prove su prove, a tutto bordone, nelle pause tra le messe. Lo so perché entro in chiesa ogni giorno, proprio in queste pause, per trovare un po’ di solitudine col mio Dio, possibilmente in silenzio. Ma trovo l’organista in prova. Le prove, non essendo musiche compiute, ahimè distraggono anziché favorire la concentrazione. Alle messe, tuttavia, l’organo tace e intona il sacrestano. «Il canto numero 125» o «il canto numero 336». Strane canzoni, queste, senza titolo e così copiose da aver bisogno di essere numerate. La domenica e alle feste principali, nella messa di mezzogiorno ci pensa la band con le chitarre, alcune anche a dodici corde (quelle normali ne hanno  sei), suonate da «giovani», alcuni dei quali evidenziano forti stempiature e non pochi fili grigi in testa. Il loro compito è far sì che in tutta la funzione non ci sia un attimo di silenzio. Se venite a trovarmi in queste occasioni mi riconoscete subito: sono l’unico che sta seduto finché il complessino non ha terminato la sua introduzione al prossimo gesto liturgico. Sono infatti convinto che il «canto n° 7495» nulla abbia a che fare con la liturgia.



Uno dei più famosi musicologi di tutti i tempi, Marius Schneider, chiarì in suo libro degli anni Sessanta (Il significato della musica, edito in Italia da Rusconi) il motivo per cui il Concilio di Trento avesse ammesso in chiesa solo l’organo a canne per la musica liturgica: l’organo a canne è l’unico strumento il cui suono ricorda la voce umana. Con ciò, ribadendo implicitamente la perenne validità del canto sacro, Fermo Ambrosiano o Gregoriano. Ogni strumento musicale emette un suono, una vibrazione che influenza una parte specifica del corpo umano (non solo le orecchie). Gli strumenti a corda si rivolgono alla parte dello stomaco, sede delle passioni (si pensi, per esempio, al ruolo delle chitarre nel flamenco). Quelli a fiato, al petto, sede dei sentimenti di ardimento, lealtà e coraggio (le bande militari sono quasi del tutto costitute da fiati). Quelli a percussione battono sulle parti basse: è fenomeno a tutti noto che certi ritmi fanno venire voglia di muoversi a tempo … La voce umana (e l’organo a canne) incide sulla testa, che è l’unica cosa che interessa a Dio (perché Gesù scelse per il suo staff dei pescatori? perché gli uomini, come i  pesci, vanno presi per la testa).

Ambrogio escogitò un rito e un modo di cantare le lodi di (ma anche le suppliche a) Dio, nonché un calendario liturgico, che sono rimasti invariati nei millenni, tanto da dare il nome di «ambrosiana» alla diocesi più grande del mondo, quella di Milano. Il Concilio Vaticano II li lasciò doverosamente al loro posto. Ma ci ha pensato il famoso e impalpabile “spirito del post-concilio” a squadernare tutto, così che di «ambrosiano» è rimasto qualche dettaglio insignificante, spostamenti di date e il triplice «kyrie eleison» finale che, nel contesto, sembra davvero fuori posto (tanto per far contento Ambrogio).

Il Santo eponimo nelle raffigurazioni è sempre rappresentato col flagello in mano, perché era davvero «martello degli eretici», nonché il primo ecclesiastico ad avere osato cacciare di chiesa nientemeno che l’imperatore. Come se Martini avesse imposto a Clinton di far penitenza pubblica o Tettamanzi avesse intimato a Napolitano di non interferire sul caso Eluana. Grande, grandissimo santo, Ambrogio. Tra i suoi successori, forse solo Carlo Borromeo gli fu pari (e neanche lui scherzava). A conti fatti, visto che a Milano di vescovi così ne spunta uno ogni mille anni, forse dovremo aspettare il 2500…