A venti anni da Mani pulite, il cataclisma politico-giudiziario che ha cambiato la nostra storia, tutto sarebbe come prima. Anzi peggio. A suffragio di questa tesi molti hanno pretestuosamente utilizzato le tradizionali inaugurazioni dell’anno giudiziario della Corte dei Conti. Ieri, per esempio, le agenzie hanno battuto la notizia che la corruzione in Lombardia ha causato danni all’erario per almeno 11,375 milioni di euro. Il dato è stato ripreso dalla relazione inaugurale del presidente della Corte dei Conti della Lombardia, Claudio Galtieri, Era già successo settimana scorsa, quando commentatori e giornali avevano riportato la relazione del Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, per affermare che in questi venti anni non è cambiato niente e bisogna fare di più dal punto di vista repressivo e punitivo. Insomma, ci vorrebbero più bagni di purificazione nelle acque del giustizialismo.



Effettivamente Giampaolino ha ricordato per l’occasione «una panoramica esaustiva dei comportamenti idonei ad arrecare un danno alle finanze pubbliche». Tuttavia – lungi dal negare o sottovalutare la corruzione che pur esiste – c’è una precisazione significativa che i commenti hanno tralasciato, ma che merita una sottolineatura: «Si tratta di una lunga e, si potrebbe dire, ben triste teoria di casi e vicende, […], che serve non tanto per tracciare una mappatura dell’illegalità, della corruzione o del malaffare (fenomeni ancora notevolmente presenti nel Paese e le cui dimensioni, presumibilmente, sono di gran lunga superiori a quelle che vengono, spesso faticosamente, alla luce) ma, quel che più interessa, ad effettuare una ricognizione degli episodi più ricorrenti di gestione delle risorse pubbliche inadeguata, perché inefficace, inefficiente, diseconomica».



La lettura di Giampaolino è degna di nota, perché non riconduce la discussione nella ristretta categoria della “questione morale”, viziata da un punto di vista politico (la agitò per primo Berlinguer contro Dc e Psi nella celebre intervista a Scalfari del 1981). Giampaolino non traccia una mappa degli antropologicamente buoni e cattivi, nella speranza che la via giudiziaria premi i meritevoli e castighi i colpevoli. L’accento di Giampaolino è invece sulla cultura amministrativa e, quindi, sulla necessità di una gestione delle risorse pubbliche – cioè dei soldi dei contribuenti – adeguata e responsabile, non allegra, né tanto meno clientelare. Ma tutto ciò deriva da una concezione che si deve avere del potere: meno statalismo e meno burocrazia, più risparmio e più libertà per soggetti non pubblici di erogare servizi di qualità ai cittadini, dentro un sistema di controllo e valutazione.



Da questo punto di vista è altrettanto significativo il richiamo di Giampaolino alla necessità per gli amministratori della cosa pubblica di sviluppare «le misurazioni e le valutazioni ex post circa l’impatto che le politiche pubbliche esercitano sulla dinamica delle entrate e delle spese».

Il sistema lombardo, tanto vituperato da giustizialismi di ritorno, è l’unico che negli anni ha fatto sua questa nuova concezione del potere. E lo si evince proprio dalla gestione finanziaria, come testimoniato dagli indicatori estrapolati dal Rendiconto per l’esercizio 2010, condivisi e verificati con la sezione lombarda della stessa Corte dei Conti. È quella cultura amministrativa che ragiona su tre direttive: la razionalizzazione della spesa di funzionamento (che, per esempio ha permesso grossi risparmi negli affitti delle sedi con l’insediamento a Palazzo Lombardia di tutte le direzioni generali); l’allocazione di risorse che privilegia sempre più gli interventi “trasversali” di diversi assessorati e coinvolge risorse provenienti da più soggetti (Europa, Stato, enti locali e privati); la riduzione della spesa con il passaggio di attività svolte esclusivamente dal settore pubblico, e finanziate con forme di prelievo coattivo come tasse e tributi, a strutture e corpi sociali, in competizione tra loro nell’erogazione del servizio e pagati direttamente dagli utenti, sostenuti nella loro libera scelta da voucher erogati dalla Regione.

Ad oggi questa è l’unica esperienza in Italia che permette di sottrarre quote di potere reale alla partitocrazia, con tutto il suo strascico di corruttela e clientelismo, a vantaggio dei cittadini, singoli o associati che siano. I venti anni da Mani pulite, allora, sono l’occasione non tanto per recriminare e chiedere nuove liste di proscrizione, quanto per guardarsi intorno e vedere cosa salva la democrazia in mezzo alla crisi economica e a quella dei sistemi politici.