Dopo mesi di latitanza finalmente approda nell’aula consiliare il Piano Generale di Sviluppo della Giunta Pisapia. Normalmente è il primo atto per cui una Giunta chiede alla propria assemblea deliberativa di pronunciarsi. E si capisce anche perché: è l’atto con cui chi amministra indica obiettivi e percorsi per raggiungerli. È in forza di questo atto amministrativo che ogni intervento della Giunta trova ragione e coerenza ideale. Le 22 paginette illustrate lunedì sera dal Vicesindaco Maria Grazia Guida, però, non presentano nulla di diverso dagli slogan elettorali degli arancioni. In tutti questi mesi d’attesa la Giunta non è riuscita ad andare al di là dei depliant della campagna per le scorse amministrative. Il PGS non solo arriva fuori tempo massimo, ma non propone neppure contenuti programmatici puntuali per l’azione di governo della città da qui al 2016.
Come al solito siamo di fronte alle vuote parole “concilianti” della maggioranza. “Concilianti” verso tutti, ma soprattutto verso le diverse componenti della sinistra. E così il riconoscimento delle unioni civili e omosessuali scompare in una generica promozione del «principio delle pari opportunità e del valore delle differenze, contrastando le discriminazioni, anche attraverso azioni che eliminino ostacoli e divari nell’erogazione dei servizi», come scritto a pagina 15.
Non una parola sull’aumento di tasse e tariffe, che non è più un’illazione delle opposizioni, ma un fatto dopo l’aumento del biglietto del tram, della Cosap e l’istituzione dell’addizionale comunale Irpef. Non é dato sapere di che morte dovremo morire. Eppure in questo lungo tempo d’attesa per il PGS si sperava che qualcuno nella maggioranza si fosse informato su cosa fare. Magari leggendo il rapporto sulla spesa pubblica del neo ministro Giarda, che recita a pag. 55: «le imposte elevate e la struttura del prelievo possono scoraggiare l’attività economica» e, dopo aver considerato che «l’amministrazione locale gestisce circa il 50 per cento della spesa pubblica complessiva diversa da pensioni e interessi sul debito», aggiunge che «é utile interrogarsi se parti delle attività oggi svolte dal settore pubblico che siano finanziate con forme di prelievo coattivo (tributi di vario genere) possano essere affidate a decisioni e gestione da parte di strutture non pubbliche». In tal senso manca ogni riferimento ad una possibile politica di liberalizzazione di servizi locali, come il trasporto pubblico, tra l’altro sempre più condizionato dai tagli dei trasferimenti statali. Manca persino una visione d’insieme delle aziende partecipate dal Comune; non si dice quale si vogliono valorizzare e in che modo: le si vogliono mettere interamente sul mercato? Quali sì e quali no? Se si vendono alcune quote di proprietà, lo si fa in che prospettiva? Su quali il Comune vuole puntare? Di quali altre può farne tranquillamente a meno?
A tutte queste domande non c’è risposta, perché se si dovesse fare una valutazione complessiva avresti il Basilio Rizzo di turno che ti accusa di svendere il patrimonio pubblico e il riformista del caso che gli replicherebbe beffardamente: “e dove andiamo a prendere i soldi se non arrivano più trasferimenti da parte dello Stato?”. E così il tema delle partecipate, delega che Pisapia avrebbe tenuto per sé, è una partita che di volta in volta viene lasciata alla discrezione (e ai rapporti personali) di Tabacci.
Per rimanere in tema di sviluppo risulta poi davvero stucchevole la parte relativa al Piano di Governo del Territorio. In essa ci si vanta della “revoca” di quello approvato dalla precedente Giunta e ci si limita a pagina 6 ad indicare un impreciso «rafforzamento della città pubblica attraverso la rivisitazione del Piano dei Servizi». Il Piano dei Servizi del centrodestra conteneva un’idea rivoluzionaria. Portando l’indice di edificabilità da 0,65 metri cubi costruibili per ogni metro quadro a 1, si impegnavano gli operatori immobiliari a destinare totalmente lo 0,35 in più ad alloggi di edilizia convenzionata, bloccando così il prezzo delle aree, o a servizi tra i più esigiti in quel preciso quartiere. L’amministrazione chiedeva servizi e case a basso prezzo e generava le condizioni per farlo. Con il nuovo Pgt di prossima discussione, invece, l’amministrazione dice all’operatore privato cose deve realizzare in quell’area, nello stesso modo dirigistico e centralista con cui vincolando le destinazioni d’uso imbriglia la libertà d’iniziativa. E in questo c’è una coerenza con gli slogan della campagna elettorale, ripetuti anche dal Vicesindaco Guida nel presentare il PGS di Pisapia. Quando la sinistra parla di “città come bene comune”, intende la città come bene del Comune, ovvero una città in cui il bene di tutti e di ciascuno è individuato e deciso da chi la amministra. Il contrario, insomma, di quella comunità più vasta dell’apparato di governo, dinamica e ricca di realtà pubbliche e private, profit e non profit, di corpi intermedi e di famiglie che è la nostra Milano, capace di creare servizi e offerte che, anche se non nate dentro le stanze di Palazzo Marino, hanno un valore ed una dignità pubblici.
Da questo punto di vista l’unico scenario che il PGS non lascia indefinito é quello di un futuro non certo per la città di Milano. Sia dal punto di vista della crescita. Sia dal punto di vista della sostenibilità dei conti pubblici. È paradossale ma è proprio lo sviluppo il grande assente del Piano Generale di Sviluppo.