Domenica 18 Marzo, Pisapia tiene il discorso per celebrare l’intestazione dei giardini a Fausto e Iaio, e dice che con questo atto si sana una ferita epocale della città.
Io ho sempre sentito dolore per questi due ragazzi uccisi davanti al Leoncavallo, e attenzione per capire chi potevano essere stati gli assassini, che non furono mai scoperti. Avendo anche la mancanza della prova che fossero morti perché antifascisti. C’era infatti anche la loro attività contro gli spacciatori di droga.



Con questa premessa mi sia concesso di dire, a Pisapia, che le ferite della città si risanano quando si riconosce che la violenza di destra e di sinistra è sbagliata, e che le vittime degli anni di piombo, fra il 1975 e il 1985, sono state crimini non giustificabili. E questo deve valere anche per Sergio Ramelli e per Enrico Pedenovi, uccisi da estremisti di sinistra.
L’argomento delle ferite della città si fa ancor più vivo oggi che il Sindaco Pisapia ha l’intenzione di regalare la sede al Leoncavallo, ripagando il proprietario Cabassi.



Quante sono le associazioni giovanili esistenti a Milano che non essendo violente non hanno occupato uno spazio non loro? Quando io ero Assessore ai giovani, con il Sindaco Albertini, avevo detto che potevamo sanare la questione della sede del Leoncavallo. Ripagando i Cabassi, a due condizioni: che il Leoncavallo partecipasse ai costi e che si facesse un bando per dare spazi ad associazioni giovanili usando un metodo di riconoscimento della qualità della presenza. Dunque riconoscevo una vicenda di parte riportando alla unità della ragione pubblica.

Ora l’intestazione dei giardini a Fasto e Iaio ha lo stesso carattere, si tratta di tenere viva la memoria di tutte le vittime di quegli anni e richiamare la città a non dividersi di nuovo nella pretesa che ci sono morti buoni e morti cattivi. Albertini aveva operato in questo modo, e le commemorazioni relative agli anni della Resistenza vedevano il gesto di un ricordo anche per quelli che furono uccisi dopo la liberazione da atti di estremismo dei partigiani.



Ma adesso siamo tornati indietro, siamo tornati ai buoni perché erano antifascisti, e con questo riportiamo a valore l’orrenda frase dei tempi sessantottini: “uccidere un fascista non è reato”. 

Torniamo ai due pesi e due misure, sistema che serve per pagare associazioni amiche e per assumere dipendenti compiacenti.

Eppure il tutto accade in modo logico. È la regola dell’egemonia culturale, quella che usa la definizione di antifascista come qualità di una parte della città, e che chiama i propri amici “cittadini democratici”. Con questa egemonia si tiene in mano tutto, anche le redazioni dei giornali, che ricattano i giornalisti sull’assegnazione della etichetta di democratico, e via via un teatro che nel nostro Paese dura da 60 anni.
Così si è generata la distorsione di sistema che ci porta a pensare che in Italia la democrazia è “controllata” da alcuni.