“150 anni di unità d’Italia e la giustizia”. Questo il titolo del Convegno che si è tenuto venerdì 16 marzo scorso, nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia a Milano, organizzato dalla Libera Associazione Forense, in occasione della presentazione della mostra “150 anni di Sussisdiarietà”, curata dalla Fondazione per la Sussidiarietà e inaugurata al Meeting di Rimini dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
La mostra, allestita presso il Tribunale fino al 24 marzo p.v., evidenzia come il popolo italiano, dopo i gravi momenti di crisi che hanno attraversato questo secolo e mezzo di storia, abbia sempre saputo reagire ricostruendo e sviluppando il Paese, dimostrando una capacità di cambiamento incredibile, senza mai tradire la propria cultura e la propria tradizione: il Convegno, pertanto, partendo da questo spunto positivo della mostra, si è posto l’obiettivo di riflettere sull’impatto e sul ruolo che l’amministrazione della giustizia ha giocato nella storia e a quale compito sono chiamati oggi gli operatori del diritto, nel difficile contesto che si trova ad affrontare l’Italia.
Dopo i saluti del presidente del Tribunale, Livia Pomodoro e del presidente dell’Ordine degli Avvocati, Paolo Giuggioli, ha preso la parola il presidente della Corte d’Appello, Giovanni Canzio: il quale ha fatto un excursus storico dell’indipendenza della magistratura fino ai giorni nostri.
Dopo il periodo fascista, ha sostenuto il presidente Canzio, nel quale fu rafforzato il controllo della magistratura nelle mani del Guardasigilli, l’Assemblea costituente, nel 1947, comprese che il problema dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura era un punto cardine su cui fondare lo Stato moderno; ne scaturì l’art. 101 della Costituzione, per cui i magistrati sono soggetti soltanto alla legge e così sottratti alle regole del consenso popolare e alle mutevoli volontà della maggioranza. Tuttavia, ha proseguito il relatore, oggi parlare di autonomia e indipendenza, affinché non resti una vuota formula liturgica, necessita di un approfondimento: l’indipendenza e l’autonomia non possono essere considerate scollegate da efficienza e responsabilità. A questo punto ha citato come esempio negativo, le reazioni scomposte di alcuni importanti magistrati nei confronti della requisitoria del P.G. Iacoviello nel processo di Cassazione a carico di Marcello Dell’Utri, ritenute non consone al ruolo e alla funzione del magistrato e in contrasto con l’unità della giurisdizione, terminando il suo intervento con la frase provocatoria: “..voglio dire a nome dei magistrati milanesi, che oggi ci sentiamo tutti Iacoviello”, ripresa il giorno dopo dalla stampa nazionale.
E’ intervenuto, a seguire, il professore di diritto e procedura penale, Luciano Violante (già presidente della Camera dei Deputati), il quale ha tracciato le differenze tra la cultura giuridica europea e quella di matrice anglo-americana, con riguardo al problema dell’indipendenza eautonomia della magistratura, per rispondere all’urgente domanda di oggi: come si può mantenere indipendenza e autonomia da parte dei giudici senza sconfinare nell’incidenza politica?
Violante, sul punto, ha proposto tre possibili soluzioni per il futuro: la prima, riprendendo una sua nota battuta che, al posto della separazione delle carriere tra P.M. e giudicanti, ci vorrebbe la separazione tra giornalisti e magistrati, contestando a questi ultimi che non si può concorrere sul terreno del consenso attraverso i mass-media e poi però farsi scudo dell’indipendenza. La seconda, che la politica da molti anni non è in grado di darsi delle regole, di natura etica e disciplinare e, pertanto, non deve poi lamentarsi dell’invadenza dell’azione giudiziaria, che si muove su un altro livello. La terza, a proposito della responsabilità dei magistrati, che l’organo disciplinare, per tutte le magistrature, sia un organismo che si pone al di fuori della magistratura stessa.
Il terzo intervento è stato quello del costituzionalista e membro del CSM, Nicolò Zanon, il quale ha esordito riconoscendo che la magistratura è stata una rete che ha contribuito a tenere insieme l’unita d’Italia in questi 150 anni, tuttavia ne ha contestato il difficile rapporto degli ultimi decenni con la politica, che ha individuato soprattutto nella sempre maggiore tendenza a sviluppare una giurisprudenza creativa (la magistratura esercita un ruolo creativo, esprimendo una volontà definitiva su svariati argomenti, svincolata dal consenso e dalla volontà popolare) cui non fornisce adeguato argine nè la Suprema Corte di Cassazione, nè la Corte Costituzionale. Ha, inoltre, spiegato come l’attività del controllo disciplinare del CSM sia, di fatto, l’unico vaglio sull’attività anche professionale dei magistrati e ciò sia insufficiente, oltre che sbagliato. Infine ha sostenuto l’importanza di ripensare l’istituto della responsabilità civile dei magistrati, ritenendo, però, impensabile e del tutto inopportuna la responsabilità diretta degli stessi.
Le conclusioni sono state tratte da Giorgio Vittadini, che ha detto di condividere quanto è stato detto negli interventi precedenti e per collegarli allo spirito della mostra ha citato un esempio di sussidiarietà della magistratura: 116 magistrati di Trani, nel 1904, firmarono un documento, noto come “proclama di Trani”, con il quale sollecitarono al Governo la riforma dell’ordinamento giudiziario cui seguì, il 13 giugno 1909, la fondazione dell’Associazione Generale tra Magistrati Italiani (AGMI) ad opera di 44 magistrati di Milano che, nel giro di alcuni anni, si estese a più di 2000 aderenti; nel 1925 l’Agmi rifiutò di trasformarsi in sindacato fascista e il 21 dicembre 1925 deliberò il suo scioglimento: nell’editoriale comparso sull’ultimo numero del giornale dell’Associazione si legge “..la mezzafede non è il nostro forte: la vita a comodo è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire”.
Da questo ed altri esempi, di cui parla la mostra, si comprende che accanto al nuovo Stato che nasce c’è un popolo che si adatta e che allo stesso tempo vuole migliorare le sue condizioni di vita, con realismo, con desiderio, ancorato alla propria ricchezza culturale, vuole migliorare le stesse istituzioni che una classe politica incerta, impreparata e spesso contraddittoria non riesce a migliorare: i magistrati si pongono il problema di un’indipendenza reale della magistratura, si pongono il tema di non essere staccati dalla realtà sociale e vogliono anch’essi essere partecipi della sviluppo economico e sociale del Paese.
L’Assemblea costituente ha mostrato come, pur partendo da posizioni ideologiche profondamente differenti, sia stato possibile raggiungere un grande compromesso tra forze politiche da cui è scaturita la Costituzione Italiana, il punto unificante è stata la persona e i suoi diritti inalienabili, il metodo quello di avere presente, prima dei propri particolarismi, il bene comune e l’interesse nazionale.
Vittadini ha citato, al proposito, una frase del giudice costituzionale, Marta Cartabia (dal libro “Esperienza elementare e diritti”), “…C’è un ideale profondo alla radice dei diritti umani e del loro moltiplicarsi, ed è l’aspirazione alla giustizia, l’attrazione per la giustizia, che abita il cuore umano. Benché tutto il positivismo giuridico che ha dominato la cultura europea degli ultimi secoli si sforzi di mostrare la totale estraneità del diritto rispetto alla giustizia.” E ancora, come criterio per affrontare questo periodo di crisi come un’opportunità di ricostruzione e cambiamento in meglio della nostra società e del sistema giustizia, Vittadini ha citato, dal medesimo testo, una frase di Luigi Giussani “..è nell’impatto con la realtà che emerge nel soggetto l’urgenza di giudicare e di vagliare, cioè di paragonare tutto con il cuore, con i criteri innati che costituiscono l’esperienza elementare di ognuno. La realtà ..diventa esperienza quando il provare è nel contempo giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente buono, se è veramente felice. In base a queste domande ultime del cuore, a questi criteri ultimi del cuore, l’uomo governa la sua vita”.
La preziosa indicazione che è scaturita dal Convegno, quale esempio di dialogo e confronto costruttivi, e che si pone in linea con l’esempio dei padri costituenti, è che il pluralismo, se ha come comun denominatore l’esperienza elementare dell’uomo, il suo innato desiderio di giustizia, verità e bellezza, genera una passione per il bene comune ed è in grado di confrontarsi positivamente per contribuire, ognuno nel proprio ambito, a costruire una società migliore.