In occasione dell’inaugurazione della mostra 150 Anni di Sussidiarietà. Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo, allestita nel Palazzo di Giustizia di Milano, il presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio, ha svolto un intervento molto significativo che ha avuto ampia eco sulla stampa. Egli da un lato ha illustrato l’evoluzione del fondamentale principio di indipendenza della magistratura (giudicante e requirente) nella storia della nazione, e dall’altro è entrato apertamente nel vivo delle polemiche sorte a proposito della requisitoria del sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione, Francesco Iacoviello, nel processo Dell’Utri, difendendo apertamente alcuni principi garantistici del giusto processo e cogliendone i nessi con il valore dell’indipendenza dell’attività del giudice.
L’autorevole intervento di una delle più alte cariche della giustizia milanese appare prezioso, oltre che per i suoi contenuti, per l’indicazione di metodo che esso fornisce, in quanto dimostra che è possibile far uscire il “dibattito sulla situazione della giustizia” dalle secche di una contrapposizione spesso ideologica e faziosa, per portarlo sul terreno della verifica concreta dell’attuazione dei principi, guardando la realtà, spesso complessa e contraddittoria, nella sua totalità: parlare in termini non astratti di indipendenza della magistratura vuol dire parlare anche delle condizioni che permettono la realizzazione del valore espresso da tale principio.
L’indicazione di metodo è dunque quella di entrare nel merito dei problemi e delle dinamiche proprie del mondo della giustizia con rinnovato senso critico, consapevoli che essi coinvolgono principi spesso tra loro confliggenti, che richiedono un equilibrato bilanciamento di interessi in funzione della realizzazione dell’interesse comune, e consapevoli anche del fatto che la dimensione tecnico-giuridica non è certo “neutra”, ma veicola scelte di valore che vanno esplicitate e motivate, giocando per così dire “a carte scoperte”, come un dibattito realmente democratico esige.
Entrare nel merito dei problemi, tenendo conto di tutti i fattori della realtà, richiede che si superi ogni pregiudiziale contrapposizione ideologica, ogni assolutizzazione del proprio punto di vista o del proprio interesse particolare (personale o corporativo): richiede – in altri termini – un’onestà intellettuale che va continuamente conquistata, ma che, quando si manifesta, si impone con un’evidenza indiscutibile.
Invece di continuare a riproporre sterili dibattiti sulla giustizia, che nella migliore delle ipotesi si concludono con il richiamo alla “complessità dei problemi in gioco”, alla necessità di “un ampio e franco dibattito” o di un “approfondimento successivo”, è dunque necessario entrare con questa libertà di giudizio nel merito dei problemi.
Un esempio. È evidente che oggi esiste l’urgenza di evitare che dietro lo schermo dell’indipendenza della magistratura si celino forme inaccettabili di impunità di gravi abusi della funzione giudiziaria, non sempre adeguatamente sanzionati; ma è altrettanto evidente che una forma generalizzata di responsabilità civile diretta del magistrato non è proponibile in ragione delle peculiarità del lavoro del giudice. Ciò posto, è possibile provare a tipizzare, in modo più soddisfacente di quanto avvenga nell’attuale sistema di illeciti disciplinari, i casi in cui il magistrato può essere chiamato a rispondere delle conseguenze del proprio operare (ovvero ipotizzare forme nuove di responsabilità professionale non necessariamente disciplinare), per contemperare così il principio di responsabilità del giudice con quello dell’indipendenza della giurisdizione.
Un secondo esempio. È possibile iniziare ad affrontare il problema della garanzie del processo e della sua durata in termini finalmente nuovi, individuando i casi in cui sono realmente compromesse imprescindibili esigenze di garanzia, ma espungendo nel contempo i casi di abuso delle garanzie, come una recente, importante, sentenza della Corte di cassazione ha iniziato a fare, introducendo il concetto di “abuso del processo”.
Diversamente dalla contrapposizione ideologica – che non cambia le cose e lascia inalterati gli assetti di potere consolidati su di essa – un confronto coraggioso e leale, a partire dalla realtà, appare oggi l’unica garanzia di un cambiamento per la realizzazione del bene comune. Si tratta del modo più adeguato per celebrare senza retorica i 150 anni dell’Unità di Italia, rappresentando l’espressione attuale, nel mondo della giustizia, di quella sussidiarietà che costituisce il filo rosso della storia del nostro Paese, come emerge in modo chiarissimo dalla mostra esposta in Tribunale.