Ci risiamo: per il 2012 è previsto un buco in bilancio di 580 milioni di euro e Palazzo Marino corre ai ripari ipotizzando una nuova vendita dei gioielli di famiglia. Dopo aver ceduto a F2i, il fondo di Vito Gamberale, il 29,75% di Sea potrebbe dismettere un’altra quota. Magari, consentendo allo stesso F2i di salire ulteriormente, ma salvaguardando il diritto dell’amministrazione pubblica di porre il veto sulle scelte che determinano strategicamente il futuro di Linate e Malpensa, quali le alleanze, la distribuzione dei dividendi o gli esuberi. L’ipotesi, che, in ogni caso Pisapia intendere realizzare come extrema ratio, non sarebbe digerita, anzitutto, dai sindacati; temono, infatti, che l’ennesima cessione ai privati possa mettere a repentaglio numerosi posti di lavoro. L’operazione sta creando dissidi anche all’interno della stessa maggioranza. Roberto Cornelli, segretario metropolitano del Pd milanese, si è detto convintoche la vendita priverebbe il Comune di asset fondamentali. «Occorre, anzitutto, chiarire quali business è opportuno o doveroso che un comune controlli, gestisca, o semplicemente vi partecipi e quali abbiano ragione di essere privatizzati perché, ad esempio, necessitano di una dimensione», afferma, raggiunto da ilSussidairio.net Andrea Rapacini, amministratore delegato di Mbs Consulting. Partiamo dai primi: «vi rientrano, ad esempio, l’anagrafe, l’acqua, l’illuminazione pubblica o la gestione dei rifiuti. Si tratta di servizi che, certamente, hanno un importante valore ma ove è preminente quello sociale».



Tale valore si ravvisa laddove vi siano diritti dei cittadini che, al Comune, spetta il compito di preservare: «ciò non significa che si tratti di servizi che vadano garantiti gratuitamente, ma che il Comune ne debba monitorare il prezzo e gli incrementi, preoccupandosi della loro qualità e universalità». In altre parole: «offrire il servizio a più persone possibili a un prezzo calmierato deve essere, in questi casi, prioritario rispetto alla remunerazione del capitale e ai profitti; che, laddove fossero perseguiti, dovrebbero essere reinvestiti nell’azienda o utilizzati per abbassare le tariffe». In questi casi, quindi, secondo Rapacini è corretto che il Comune, pur decidendo di affidare la gestione a dei privati, ne mantenga il controllo o una partecipazione strategica. «Perché, di certo, privatizzare può voler dire ottimizzare, rendere il prodotto più efficiente e liberarlo dalle commistioni con la politica; ma, d’altro canto, può determinare uno sbilanciamento nei confronti degli interessi del privato a scapito di quelli del cittadino». Quali paletti imporre, quindi? «Il Comune può affidare tali servizii al privato in regime di concessione, attraverso cui definisce un protocollo di servizio, prezzo e qualità per il cittadino, nei confronti del quale assume il ruolo di garante». 



Da questo punto di vista, le considerazioni sull’aeroporto di Milano diventano scontate: «non credo che, socialmente, rientri tra le priorità del Comune. Oltretutto, la maggior parte dei grandi business aeroportuali sono in mano a operatori specializzati, tipicamente molto competitivi, caratteristica per la quale la dimensione è fondamentale». Non solo: «le compagne aree sono in difficoltà, pagano poco, e i gestori degli aeroporti devono trovare alternative quali, solitamente, l’affitto di spazio a esercizi che trasformano gli hub in una sorta di centri commerciali». 



A questo punto, «se, effettivamente, il Comune di Milano si trova in difficoltà economiche – aggiunge – , non mi pare che la vendita di Sea possa provocare scandalo». Resta da capire se un imprenditore possa avere reali interessi a entrare nel capitale di Sea. «Aziende come Sea – conclude – rappresentano infrastrutture dove i margini di guadagno non sono elevatissimi ma, d’altro canto, i rischi sono minimi. Una rendita bassa, ma sicura. Difficilmente, infatti, potrebbe palesarsi un altro operatore e fare concorrenza costruendo un altro aeroporto».