I grandi colossi americani sono sempre più avanti. I benefit aziendali offerti ai dipendenti sono passati da quelli fiscali, ormai assicurati da anni, a servizi molto più accessori: dal parrucchiere offerto da Google, alla possibilità di partecipare a lezioni tenute da imprenditori famosi a Facebook o alla parete attrezzata per la scalata di Twitter. In Italia la situazione è un po’ diversa. Secondo una ricerca condotta da Manageritalia, che ha presentato oggi a Milano un progetto pilota che ha introdotto il welfare aziendale anche in due Pmi, i dipendenti sono convinti che migliori la produttività dell’azienda e il benessere dei dipendenti. Sempre secondo la ricerca, però, solo il dieci per cento dei lavoratori può usufruire di questi incentivi. Forse, non il parrucchiere, ma anche solo servizi basilari come telelavoro, congedo parentale, servizi per la salute e l’assistenza, migliorerebbero la percezione del lavoro da parte dei dipendenti.



Una visione differente che contempla modalità che non quantifichino economicamente i benefit ma che creino un rapporto fiduciario fra impresa e dipendente sono alla base della filosofia del Forum delle Associazioni familiari. Abbiamo sentito per IlSussidiario.net, Gianna Savaris Scilhanick del Sindacato delle famiglie e Vice presidente Forum delle Associazioni familiari.



Qual è il concetto che sta alla base della vostra concezione di Welfare Aziendale?

Nella mentalità corrente italiana, l’azienda elargisce dei benefici alle aziende. Questa è un’ottica che noi abbiamo superato, sostituendola con il concetto di reciprocità: l’impresa è un ente che produce beni solidi ed economici e la famiglia ne produce altri, di tipo valoriale, di cui la società ha bisogno come i figli, investimento del futuro e capitale sociale di domani. Il rapporto fra famiglia e dipendente, che è già una parola non appropriata, deve basarsi sull’interscambio di beni non materiali e servizi: una prassi che attiva la fidelizzazione del lavoratore e un rispetto maggiore per chi lavora.



In Italia questo concetto non è molto diffuso: perché?

Mentre negli altri paesi, soprattutto le nazioni nordiche, c’è una visione più sociale dell’insieme degli attori, in Italia la visione è arretrata all’individualismo più puro dove un beneficio viene benevolmente concesso da qualcun altro, calandolo dall’alto. Questo, per forza di cose, comporta l’inclusione di più soggetti attivi: l’impresa, il lavoratore, la famiglia e il territorio che viene mobilitato in ottica di una costruzione di una società virtuosa.

Cinicamente, l’azienda cosa ci guadagna?

Innanzitutto, occorre partire dal riconoscimento delle diverse responsabilità su un piano paritario e poi considerare che un lavoratore che si sente compreso e appoggiato nei propri progetti famigliari, cosa che all’azienda costa pochissimo in termini economici, non potrà che lavorare meglio e produrre di più.

Cosa intende quando parla di reciprocità?

Non c’è uno schema applicabile tout court, sono molte le valutazioni da fare. Occorre, innanzitutto, un accordo e un approccio molto specifici e attenti soggetti rispetto all’area in cui si vive e ai soggetti coinvolti: il salto di qualità è dato dal rapporto che si crea fra l’azienda e il lavoratore per instaurare un nuovo percorso. Ci sono molte aziende che hanno una serie di benfit e concessioni ma che, secondo noi, non centrano il punto.  A noi non interessa che l’azienda si occupi della spesa o mandi l’abito in tintoria, o perlomeno, non è il tipo di welfare aziendale che la nostra associazione ha in mente. Le azioni che devono essere messe in atto sono fatte perché la famiglia svolga al meglio i propri compiti e le proprie responsabilità e, in questo caso, flessibilità e part-time, possono essere gli strumenti adatti per andare incontro alle esigenze del lavoratore. Non sono i soldi o i benefit quantificabili e monetizzabili che fanno la differenza e migliorano la nostra società.

Si tratta, quindi, di facilitazioni non fisse ma che cambiano continuamente di pari passo con le necessità delle famiglie?

Certo, non sono beni statici poiché la famiglia affronta vari stadi di cambiamento poiché segue il crescere dei figli. Le giovani coppie che hanno un figlio piccolo non hanno le stesse esigenze di quelle più mature con figli adolescenti o quasi adulti. La famiglia si sente valorizzata e vive nei confronti dell’azienda un rapporto maturo e adulto, non dipendente, nel quale c’è sempre qualcuno che concede e l’altro che aspetta.

Come invertire questa tendenza?

In Regione Lombardia è partito, ormai da un paio d’anni, un tavolo strategico sui temi di conciliazione, famiglia e lavoro. Vi partecipano: istituzioni, sindacati, associazioni di categoria imprenditoriali e le associazioni familiari. Non ultimim, i tecnici competenti come i docenti universitari  che aiutano e sostengono, dal punto di vista puramente culturale, ad innescare questo processo. Secondo me, il modello rigido del lavoro sta cambiando: anche i sindacati sono stati chiamati a prendersi le proprie responsabilità come, ad esempio, non irrigidirsi sulla concessione dei part-time per le donne.

Concretamente, quali sono i vostri progetti?

Ad esempio, stiamo approntando un piano paritetico di conciliazione famiglia-lavoro che preveda che il dipendente e l’azienda aprano un fondo a cui si possa attingere nei vari momenti di emergenza, per sostenere l’assenza dal lavoro, l’aspettativa e le varie emergenze economiche. Insomma, il tutto in un ottica di progettazione a lungo termine.

(Federica Ghizzardi)