A un anno dai referendum sull’acqua, sulla Regione Lombardia giunge l’accusa pesante di “svendere” l’acqua delle proprie sorgenti a poche multinazionali. La denuncia è arrivata da due consiglieri regionali del Partito democratico, Enrico Brambilla e Francesco Prina, che hanno evidenziato che per servirsi delle sorgenti le imprese danno un contributo alla regione pari a 0,0009 euro al litro per le bottiglie in vetro e 0,0120 euro per quelle di plastica, meno della metà del massimo consentito per legge, pari a 0,025 euro al litro. Per gli esponenti dell’opposizione manca inoltre un gestore unico in ogni provincia per il servizio idrico e c’è un ritardo negli interventi anche a livello infrastrutturale. Nel frattempo i comitati promotori del referendum hanno rivolto un appello al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e sono pronti a scendere in piazza il 2 giugno per chiedere che sia rispettato l’esito del voto. Abbiamo chiesto un commento all’avvocato Danilo Tassan Mazzocco, esperto del settore utilities.



Avvocato, a un anno dal referendum sui temi della gestione della risorsa idrica, i comitati promotori sono tornati a far sentire la loro voce, lamentando che la volontà del popolo italiano, così chiaramente espressa in quell’occasione, sarebbe rimasta disattesa. C’è del vero in quest’accusa?

Non direi. Il Governo ha preso atto dell’esito referendario, che ha portato all’abrogazione della norma (l’articolo 23-bis) che disciplinava le modalità di gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, di tutti i servizi pubblici non del solo servizio idrico. Se pure è vero che l’attenzione dei media e dei polemisti si è concentrata da subito sul tema della ri-pubblicizzazione delle acque, è altrettanto vero però che il quesito referendario chiedeva agli italiani se fossero pro o contro una regolamentazione che estendeva il proprio raggio d’azione anche oltre il perimetro del servizio idrico.



Cosa ha fatto il Governo? 

In piena estate è intervenuto per colmare il vuoto normativo creatosi per effetto del referendum, introducendo una norma ampiamente riproduttiva dei contenuti dell’articolo 23-bis, ma espressamente escludendo dal relativo ambito di applicazione il servizio idrico integrato. Così facendo, il Governo ha riconosciuto che il popolo italiano, al di là dell’infelice formulazione del quesito, aveva in realtà inteso esprimersi solo sul tema delle acque, per cui bene ha fatto a reintrodurre una nuova disciplina per gli altri servizi che con quel tema nulla avevano e nulla hanno a che spartire.



Questo significa che si è introdotta, per effetto del referendum, una completa deregulation del settore idrico?

Non è così. La Corte costituzionale, quando ha ammesso i referendum sull’acqua, ha escluso che per effetto della possibile abrogazione dell’art. 23-bis vi fosse la necessità di un immediato intervento del legislatore italiano. Questo per la supplenza operata dai principi di derivazione comunitaria che, in assenza di una regolamentazione puntuale dell’ordinamento locale, si riespandono e assolvono alle medesime esigenze normative alla base dell’intervento del singolo Stato membro. Questi principi esistono e operano e hanno una portata precettiva chiara.

Con quali conseguenze?

Per l’ordinamento comunitario, ci sono tre modi per gestire le risorse idriche, in alternativa secca tra di loro: gestione in house, cioè di un soggetto a totale partecipazione pubblica; gestione attraverso società mista; affidamento con gara a una società privata. L’ordinamento comunitario è quanto mai rispettoso della libertà dei suoi membri: lascia libere le autorità locali di scegliere la forma gestionale più appropriata, non impone, favorisce delle scelte. Ed è indubbio che vi possa essere chi preferisce la gestione pubblica e che invece opta per forme di collaborazione pubblico-privato o per gestioni totalmente private. Ma nessuno è in diritto di demonizzare chi compie scelte diverse dalla sua, purché il modulo gestionale rientri nel novero di quelli ammessi dai principi comunitari.

A chi spetta allora la scelta di ricorrere a una gestione totalmente pubblica? Allo Stato o alla Regione?

A nessuno dei due. La scelta spetta alle associazioni tra enti locali del territorio costituente il cosiddetto ambito ottimale (in Lombardia alle Province). Sono le cosiddette autorità di ambito che devono compiere la scelta del modello organizzativo e gestionale. Tale valutazione, per il nostro sistema normativo, almeno a partire dalla legge Galli, quindi da quasi un ventennio, non va compiuta “in astratto”, ma è considerata immanente al giudizio complessivo di quello che gli enti locali di un determinato territorio vogliono in termini di organizzazione delle risorse idriche.

Può essere più chiaro.

Si sceglie a quale forma gestionale fare ricorso nel mentre in cui si valutano gli investimenti infrastrutturali di cui una data rete idrica abbisogna, si compie la pianificazione economico-finanziaria degli investimenti stessi e della più generale gestione, si determina l’articolazione e la progressione della tariffa nel corso degli anni presi in considerazione da questa attività programmatoria (di norma: venti o trenta anni). La scelta della forma gestionale è parte essenziale del cosiddetto piano d’ambito: quando si approva quest’ultimo, si sceglie anche a quale soggetto (pubblico, privato o misto) affidare la gestione.

Che cosa non ha fatto la Regione Lombardia che avrebbe invece dovuto fare? Ci sono critiche all’operato degli organi regionali… Sono fondate?

Se ci sono dei ritardi (in Lombardia come in moltissime altre regioni italiane) la colpa non è certo dell’Ente regionale. Non è la Regione che deve approvare i piani di ambito, e quindi scegliere il modello gestionale meglio rispondente alle caratteristiche del territorio o alla sensibilità degli amministratori locali. Sorprendono davvero queste accuse, che fanno il paio con quelle, di segno opposto, che negli anni scorsi venivano mosse alla Regione dalla stessa parte politica: quella di eccessivo interventismo nel settore, con scelte anche estremamente innovative, come quella che prevedeva la obbligatoria separazione, nella filiera industriale del trattamento delle acque, tra la fase della gestione e quella dell’erogazione.

A cosa si devono allora questi ritardi?

Direi che la ragione principale è da mettere in relazione alla complessità delle procedure di riorganizzazione degli operatori attivi sul territorio, di matrice pubblica.

Può spiegarsi meglio?

 

È indubbio che il referendum abbia espresso un certo favor verso forme di gestione pubblica delle acque. Di questo clima favorevole intendono approfittare gli operatori pubblici esistenti sul territorio. Ma visto che il gestore, per legge, e salvo limitatissime eccezioni, deve essere “unico”, ne segue che gli operatori pubblici che ambiscono a un affidamento in house debbono porre mano a complesse operazioni di fusione e aggregazione societaria, non semplici neppure per soggetti privati, figuriamoci per strutture pubbliche che, spesso, finiscono col rispondere a logiche non totalmente allineate alle esigenze del mercato.

Ma non c’era anche un secondo quesito referendario sul tema delle acque?

È vero, quello che chiedeva di abrogare la norma che prevedeva che la tariffa idrica tenesse conto di un’adeguata “remunerazione del capitale investito”. L’obbiettivo era di escludere che la tariffa potesse contenere una quota di rendimento a favore di chi investe denaro nelle infrastrutture idriche. Forzando il concetto, è come se si chiedesse per legge di eliminare il tasso di interesse che le banche richiedono quando erogano un mutuo per l’acquisto della casa. Un’assurdità completa. Ma anche questo quesito è passato, dubito però che chi ha votato a favore avesse chiaro che, così facendo, la principale modalità per finanziare investimenti nelle reti idriche e negli impianti di depurazione sarebbe divenuta la spesa pubblica, attraverso un aumento delle tasse.

Cosa ha fatto il Governo per attuare la volontà popolare?

Qui la scelta è stata davvero brillante. Prevede l’affidamento all’Autorità per l’energia elettrica e il gas del compito di definire e aggiornare i criteri con i quali le autorità di governo degli ambiti o dei bacini quantificheranno la tariffa applicata all’utente finale. In pratica, va riscritto, alla luce dell’esito referendario, il cosiddetto metodo normalizzato per la determinazione della tariffa idrica, che nella sua vigente versione risale addirittura al tempo in cui Di Pietro era ministro dei Lavori pubblici (1996). L’AEEG è un organismo tecnico che, nel settore dell’energia elettrica e del gas, ha dato ottima prova di sé negli ultimi anni: certamente saprà elaborare soluzioni che, nel rispetto sostanziale del referendum, sapranno anche positivamente apprezzare le esigenze del mercato degli operatori e degli investitori finanziari.

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