Si parla molto di giustizia e di carcere e ciascuno sente il dovere di dire la sua su cosa sia giusto e cosa sbagliato. E’ facile dividere i buoni dai cattivi. Ma c’è chi invece ha deciso di vivere a pieno la cosa andando tutti i sabati pomeriggio a fare compagnia ai carcerati. Si scopre allora che nella realtà le cose non sono così semplici, le persone sono persone, non si riesce a dividere il nero dal bianco e il carcere è un luogo di grandi contrasti. L’associazione di questi volontari si chiama “Incontro e Presenza”. Nata nel 1986, attualmente è costituita da circa un centinaio di volontari operanti nei carceri milanesi di San Vittore, Bollate, Monza, Opera, e il Minorile “Beccaria”. L’associazione oltre alle visite in carcere si occupa di progetti come la distribuzione  a San Vittore ogni anno circa 30 mila capi di vestiario per i detenuti indigenti,  offerta di alloggi per i permessi premio o l’immediata scarcerazione, fornitura di cibo per loro e le loro famiglie in collaborazione con la Fondazione Banco Alimentare, erogazione di piccoli sussidi per il loro sostentamento, accompagnamento alla ricerca del lavoro (www.incontroepresenza.org) e da più di vent’anni fa compagnia ai carcerati e si occupa del loro delicato reintegro nella società.



Il coinvolgimento va ben oltre il tempo materiale passato all’interno delle inferriate del carcere, tanto che a Daniela, assistendo a una piacevole serata di musica tra amici, viene l’idea di portare un po’ di quel calore, di quella unità e di quella semplice bellezza che è nel canto ai loro “amici”(così li chiamano) carcerati. Alla proposta di cantare per questi “amici” aderisco immediatamente, entusiasta ma anche spaventato, memore dell’impressione fortissima che ricevetti ascoltando il “Live in Folsom Prison” del mio idolo Johnny Cash. Per lo scomparso musicista americano infatti esibirsi davanti ai carcerati era una esperienza così concreta che ebbe a ripeterla numerose volte nel corso della sua carriera, fino a farlo diventare un evento abituale. Al pensiero di fare altrettanto, non ci ho dormito per diverse notti, fino a che sabato scorso con la chitarra, l’amico Gabriele con la sua fisarmonica e una decina di volontari siamo entrati nel carcere di San Vittore a Milano.



L’ingresso di Piazza Filangieri è bellissimo; ma, per contrasto, è l’ingresso di un carcere dove 1600 persone si dividono uno spazio pensato forse per 800. I riti da seguire all’ingresso servono in realtà a far entrare in un mondo a sé. Un mondo dove ogni cancello (e sono tanti, a ricordare che di lì non si esce) ha una guardia, con un grossa chiave, che ti chiede dove vai; dove ancora si fuma liberamente (almeno quello…); dove una bottiglietta d’acqua vuota è un piccolo tesoro; e dove lo scorrere del tempo se ne frega delle nostre regole di scansione. Attraversiamo il Terzobraccio maschile, il braccio fortunato perché le porte verdi blindate delle celle sono aperte e i carcerati possono uscire nello spoglio e scrostato corridoio. Così il senso di pietà prevale mentre l’occhio si infila in questi loculi dove mezzo metro divide i 3-4 letti a castello da qualche mobiletto che non si trova neanche al mercatino dell’usato. Una fitta: ma se queste porte non rimanessero  aperte come passano la giornata, che neanche in piedi ci stanno dentro in quattro?



Finalmente, una quindicina di facce di tutti i colori ci aspettano e in un attimo le distanze tra il nostro edil loro mondo si infrangono: l’uomo è uomo ovunque, il cuore canta e il canto unisce in una le anime di un limbiatese e di un magrebino. “La compagnia di qualcuno che guarda il tuo bene, che guarda il tuo cuore e non il tuo limite,  può fare emergere la bellezza” dice Francesca. Persino Franco Califano qui arriva dritto in fondo all’anima: ascoltatevi “La mia Libertà” pensando di cantarla a un carcerato che l’ha richiesta personalmente. 

Mentre le canzoni corrono, prima degli sguardi e dei sorrisi raggianti e delle ruvide strette di mano di saluto, ho il ricordo di queste teste chine sui fogli con l’intensità di chi scruta ogni parola. Impressione che avevo avuto una sola altra volta (pensa un po’) al monastero di clausura dei monaci della Cascinazza alle prese con i nostri canti irlandesi. Un’ora e mezza così vale da sola una tournée, e invece di corsa al reparto Femminile dove arriviamo per tempo e abbiamo modo di vedere arrivare una ad una, massimo due per volta, una trentina di detenute. Il colpo qui è fortissimo, sono donne, in fondo. E alcune molto giovani.

Saluto ciascuna chiedendomi chi sia e come possa vivere in un luogo così. Qui il momento è addirittura travolgente. “Ma possiamo cantare anche noi?” chiedono e i canti diventano un’onda inarrestabile. Martina farà l’avvocato, ma avendo vissuto questi sabati sarà un avvocato diverso, e porta l’acuto di “All’improvviso” di Mina per ricordarsi che nella vita può accadere qualcosa di imprevisto ma desiderato. Dopo aver loro spiegato che “L’opera” non è un inno al secondo carcere milanese ma una canzone di Claudio Chieffo, voci da ogni Paese la intonano e battono le mani con la stessa intensità mostrata su O’ Sarracino. Viene la pelle d’oca e hanno ragione loro: “Sarà il bel giorno di una grande festa e allora canteremo insieme!” La festa è già in atto, il bel giorno è qui tra le inferriate di San Vittore. Sembra incredibile, ma è così.

 

(Giorgio Natale)