In un famoso passaggio di uno dei libri più importanti per la coscienza umana e cristiana dell’Occidente, l’Idiota di Dostoevskij, compare la frase attribuita al principe Myskin, secondo la quale il mondo sarà salvato dalla bellezza. Le brevi considerazioni che seguono vogliono essere semplicemente e (senza falsa modestia) modestamente un invito alla bellezza a margine di un interessante e (forse già solo per questo) importante incontro del Centro Culturale Don Cesare Tragella a cui mi è stata data l’opportunità di assistere sabato 26 maggio presso la sala consiliare del comune di Magenta con l’architetto Ernesto Brivio, direttore emerito del Museo e della Fabbrica del Duomo, ruolo che ha ricoperto per una cinquantina d’anni.



Il Duomo di Milano, che Ernesto Brivio ha raccontato e illustrato nella sua storia e nel suo significato architettonico, è il monumento che, a seguito del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, inevitabilmente resterà nella memoria di tutti i partecipanti agli eventi, innanzitutto come un appello affinché riprenda vigore la fiamma di una bellezza, dalla quale traspare il vero, e che, nella più grande metropoli del nord Italia, a volte (per fortuna non sempre) sembra spegnersi fino a scomparire in un frastuono di cui proprio chi è di Milano stenta a capire il senso. Non poteva quindi non accadere che, in questa particolare circostanza nella quale sarà il popolo convenuto dall’Italia e dal mondo (e non solo carrieristi in cerca di successo a basso costo) a giudicare la bellezza di Milano, qualcuno pensasse di parlare della città. Mi vengono in mente incontri sulla famiglia ai quali ho assistito, dove si è riflettuto anche sulla città e su Milano, oltre al volume collettaneo fresco di stampa a cura di Danilo Zardin Il cuore di Milano. Identità e storia di una “capitale morale” (Bur 2012).



Nell’incontro di Magenta, Ernesto Brivio si è soffermato non poco, tra le altre cose, sul carattere tipicamente mediterraneo della cattedrale di Milano, che emerge ad esempio dalla scelta di terrazzare la copertura delle navate e di renderla interamente pedonabile, oltre che dalle reminiscenze classiche (come i capitelli dei pilastri interni) e romaniche (la forte presenza del muro esterno e il largo tetto a capanna). Non sono elementi accessori, perché fanno capire come la scelta del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti che, alla metà degli anni Ottanta del XIV secolo, volle erigere una cattedrale a Milano sul modello di quelle gotiche d’Oltralpe, dovette fare i conti, nella realizzazione che sarebbe durata per i secoli successivi, con la spiritualità cattolica che, a sud delle Alpi, non aveva gli stessi caratteri di quella nord europea: nell’humus della spiritualità del nord Europa sarebbe sorto lo spiritualismo della Riforma, mentre, nel Duomo di Milano, ancora oggi si nota, secondo Brivio, come «la tensione spirituale verticale viene tagliata dai capitelli e recuperata solo in un secondo momento dalle guglie all’esterno», tanto che, come disse il poeta rosminiano Clemente Rebora, il Duomo di Milano «non svetta verso il cielo/ ma ferma questo in terra in armonia/ nel gotico bel di Lombardia».



Clemente Rebora morì nel 1957 a Stresa, la patria di adozione del suo maestro spirituale Antonio Rosmini (1797-1855), davanti alle stesse acque del Verbano alimentate da quel fiume Toce, sulle cui rive si trovano le cave del marmo leggermente roseo di Candoglia che migliaia di operai trasportarono nei secoli sulle acque del Lago e, attraverso il Ticino e il Naviglio Grande, fino a Milano per costruire il Duomo. Una tensione spirituale, manifestazione di un impegno che non temette di dar vita a un’opera dal carattere umanissimo e, per questo, continuamente incompiuta, una sorta di Sagrada Familia del tardo Medioevo e del tempo moderno. 

È un cristianesimo che abbraccia l’umano, quello che vibra nella pietra del Duomo, e ciò fino al sacrificio di se stessi, come dimostra il fatto che, in certi momenti, nemmeno la fame divenne un’obiezione al proseguimento della costruzione, perché la realizzazione avrebbe reso sacra (e quindi migliore) la materialità negativa e avrebbe salvato l’uomo. Viviamo in un mondo che non fa che proporre modelli di bellezza dai grandi mezzi di comunicazione di massa, ma che, a dispetto di questa professione di estetismo, produce persone sempre più anestetizzate, incapaci cioè di cogliere la bellezza, segno che i modelli proposti o sono stati proposti male o (peggio e più spesso) tali non sono. Credo che la riflessione sulla bellezza del Duomo di Milano e l’invito ad andare a visitarlo non con gli occhi del passante affrettato e in fuga da se stesso e dalla realtà che lo circonda possa costituire l’occasione almeno per chiedersi cosa c’entra Cristo con la bellezza e se è possibile una bellezza senza Cristo.