Il titolo del VII Incontro Mondiale delle Famiglie suona così “La famiglia: il lavoro e la festa”. I due punti dopo la parola famiglia ci indicano che non si tratta di approfondire tre ambiti separati di vita, quanto piuttosto di capire come lavoro e festa facciano parte intrinseca della vita della famiglia. Come viene detto infatti nella catechesi preparatoria, il lavoro e la festa sono modi con cui la famiglia abita lo “spazio” sociale e vive il “tempo” umano.



La semantica del lavoro si radica quindi nel famigliare e a partire da questo possiamo evidenziare alcuni aspetti relativi al tema dell’educazione al senso profondo del lavoro.

Un noto importante studioso della famiglia, Urie Bronfenbrenner, dice in proposito che “la famiglia rende umani gli esseri umani”. La famiglia umanizza ciò che da lei nasce e che in lei trova ospitalità e lo fa attraverso legami affidabili, cioè legami che esprimono le qualità affettive di fiducia e apertura verso l’altro e le qualità etiche di giustizia e lealtà. Queste qualità di base sono la risorsa simbolica della famiglia, che, se coltivate fanno crescere e, se tradite, generano abbandono e violenza.



Per divenire pienamente umani occorre perciò un luogo specifico e questo luogo è la famiglia. La famiglia si pone quindi come il contesto dei primi e insostituibili apprendimenti di umanità che funzioneranno da matrice per tutte le altre relazioni sociali.

James Heckmann, premio Nobel per l’economia nel 2000, sostiene e documenta empiricamente come la famiglia sia insostituibile per la formazione di quelle abilità socio-emotive e cognitive che sono decisive nella costruzione di personalità in grado di generare capitale umano, risorsa principe della società.

Da parte sua, la dottrina sociale della Chiesa frequentemente associa la parola scuola alla famiglia. La famiglia è “scuola di umanità più completa e ricca” si legge nella Gaudium et Spes (n. 52) e “famiglia prima scuola di quelle virtù sociali che sono l’anima della vita dello sviluppo della società stessa” si legge nella Familiaris Consortio (n. 42).



Il binomio famiglia e scuola compare peraltro anche a proposito del lavoro. La cosa è particolarmente interessante visto il tema dell’Incontro Mondiale. Al proposito assai significativa è questa affermazione presente nella Laborem Exercens (n. 10): “la famiglia è al tempo stesso una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo”.

In che senso la famiglia è una scuola di lavoro?

Essenzialmente perché nella famiglia si apprende ad essere responsabili per se stessi e per gli altri del comune ambiente di vita. Il ben-essere di ciascuno di noi e il ben-essere dell’intero nucleo familiare sono il frutto di un impegno responsabile di lavoro quotidiano fatto di cura, competenza, capacità di portare a termine i propri compiti.

Il lavoro nella sua dimensione personale, ma anche nella dimensione della collaborazione (etimologicamente associata al termine lavoro) ha quindi una radice familiare. Del resto se diciamo che la relazione familiare è primaria, diciamo appunto che sta nel momento sorgivo, istituente tutte le altre forme realizzative dell’umano tra le quali il lavoro assume certamente una fisionomia emergente.

Questa dimensione di realizzazione personale e al contempo di realizzazione del bene comune che si apprende in famiglia è alla radice di una sana e feconda concezione del lavoro anche al di fuori della famiglia. Il lavoro quindi alla sua origine, non solo non è opposto o in alternativa alla famiglia ma in profonda connessione.

Tale connessione è però oggi fortemente in crisi perché la società tratta il lavoro avendo come referenti individui singoli e non membri di una famiglia. Questa la radice della inimicizia tra famiglia e lavoro e la difficoltà di una loro conciliazione. Per portare il nostro discorso ancor più alla sua radice antropologica possiamo mettere l’accento sulla nostra difficoltà – tutta post-moderna – di concepire l’identità adulta nei termini di una realizzazione di sé che non sia prevalentemente di realizzazione di tipo individualistico-espressivo (mi “auto” realizzo e voglio fare quel che mi piace), ma più profondamente che tenda ad una realizzazione generativa di bene comune. Quest’ultima si vede se si è capaci di  dar vita a progetti condivisi e a buone pratiche lavorative di tipo collaborativo (e non solo competitivo) per migliorare le nostre condizioni di vita. Non sfugga qui l’analogia con quel che si fa e si apprende in famiglia.

Oggi, in una società del “tutto subito” e che vive di una concezione di sé di tipo “autorealizzativo” e poco generativo, è sicuramente più arduo far capire ai figli e più in generale ai giovani che è importante affrontare la fatica di apprendimenti di cui non si sperimenta la piacevolezza e l’utilità immediata. Ma è probabile che nel lungo periodo sia di facilitazione, oltre che il sostegno e la collaborazione che si respira in famiglia (o nei luoghi di lavoro), la presenza di madri e padri (o di adulti) che testimoniano nei fatti che quando la fatica del lavoro entro e fuori dalla famiglia è sorretta da passione e gusto, “corrisponde” e dà forma alla propria vocazione. Ecco, la parola vocazione, parola antica ma da riscoprire è ciò che può dar senso, cioè significato e direzione alla faticosa, spesso inquieta ma comunque affascinante avventura della realizzazione e del compimento di sé sia nel lavoro che in famiglia.

E si cerca la propria vocazione seguendo le tracce dei propri desideri, seguendo ciò che è inscritto nei propri talenti, ma anche seguendo le opportunità concrete della vita entro quel pezzetto di storia che Qualcuno ci ha donato.

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