C’è un qualcosa di inatteso in quello a cui abbiamo assistito in questi giorni a Milano con le giornate di visita di Benedetto XVI. Qualcosa di inatteso che ha avuto la sua esplicitazione più chiara ieri nella veglia di testimonianze nella gigantesca spianata di Bresso. 

Parlare di famiglia nella città che ha l’impressionante record di avere più “famiglie” mononucleari che famiglie con almeno due persone (in sostanza, a Milano città oggi sono più le abitazioni di single di quelle che hanno almeno due componenti), poteva sembrare un’operazione anacronistica. Disperatamente destinata a restare marginale rispetto a questi implacabili flussi antropologici. Parlare di famiglia in questa Milano rischiava di ridursi a una carrellata di belle storie e di buone intenzioni, venute o da lontano o da un più o meno recente passato.



Su quella grande spianata di Bresso invece è accaduto qualcosa che è uscito decisamente da questo copione. Per due motivi. Il primo: a rompere il ghiaccio nel dialogo tra il Papa e le famiglie è stata la domanda di Cat Tien, una bambina di sette anni di origini vietnamite. Una domanda semplice, dettata dalla curiosità di sapere come fosse stata l’infanzia e la famiglia del papa. E Benedetto XVI, descrivendo qualche particolare di quei sui primi anni di vita, è arrivato a una conclusione quasi commossa: «Penso che il Paradiso debba essere come ai tempi della mia gioventù e penso di andare a casa andando verso l’altra parte del mondo». 



La famiglia con gli occhi di Benedetto XVI è un luogo dove innanzitutto la persona “sta bene”. È la miglior casa, il miglior luogo che una persona possa pensare per se stessa. La famiglia evocata da Benedetto XVI come esperienza vissuta, è innanzitutto un luogo contrassegnato dalla bellezza. Nella serata delle testimonianze anche il Papa ha voluto dare la sua, pensando a un mondo (e a una città) che vanamente e a volte disperatamente insegue uno “star bene”. La famiglia, sembra voler sottendere il papa, non è il luogo che ghettizza e disciplina i desideri, ma semmai li rende possibili.



Ma c’è un secondo motivo, per cui il copione della serata di ieri non è andato come “previsto”. Ed è l’aver ammesso la grandi difficoltà che oggi la vita di coppia subisce. È stata la domanda di due psicologi impegnati nella terapia sulla coppia a mettere a tema la questione. Il Papa non si è sottratto, e anziché proporre ricette consolanti o dettare regole di comportamento, riferendosi ai divorziati, ha detto una cosa che può apparire sorprendente: «Vivono pienamente nella Chiesa, la loro sofferenza è un dono per la Chiesa». 

La Chiesa non può solo ergersi a giudice morale nei loro confronti, non può nemmeno pensare di assolvere il suo dovere con un compito di accompagnamento pastorale, ma deve capire che la loro sofferenza, il dolore di non poter accedere ai sacramenti, è qualcosa che va visto come un dono per la Chiesa tutta. Un sacrificio fatto non solo per stessi. Mi sbaglierò ma mi sembra che dentro queste parole ci sia una prospettiva assolutamente nuova, un’apertura che va ben oltre quelle richieste dalla cultura laica. C’è una libertà di sguardo che libera anche da tutti i pregiudizi morali. 

Un’ultima sottolineatura mi sembra giusto fare: mi è sembrato bellissimo quel suggerimento del papa di proporre un “sostegno a distanza” tra famiglie della vecchia Europa per aiutare quelle che stanno nei Paesi più colpiti dalla crisi. È un modo di ricordare che la famiglia è un soggetto sociale vero, attivo e aperto. Ed  è un modo di ricordare alla famiglie che c’è questo nel loro Dna.

 

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