«Ha cambiato i rapporti tra Chiesa e Stato. La via da seguire è quella di Benedetto XVI, mentre i non credenti hanno dato prova di non capire». È perentorio il bilancio di Giulio Sapelli, economista, a conclusione della visita del Papa a Milano. L’incontro mondiale delle famiglie si è appena concluso e con il professore riandiamo ai momenti che hanno segnato le giornate milanesi del Santo Padre. 



«L’impressione di fondo è che sia venuto in questa città qualcuno che fa vedere il mondo da un punto di vista radicalmente diverso. Prendiamo il discorso tenuto in Arcivescovado di fronte alle personalità del mondo politico e istituzionale. Sarebbe interessante capire cosa ha davvero suscitato nei presenti, al di là degli appalusi di rito. Quello che ha detto il Papa, infatti, è profetico».



A cosa si riferisce, professore?

Dovete farvi amare, ha detto ai politici. Evidentemente nel rispetto della giustizia, definita «qualità prima di chi governa». Il Papa ha detto la cosa fondamentale che dovrebbero fare la politica e l’economia: creare reciprocità, amore, solidarietà. È il contrario di quello che avviene oggi. Un discorso scandaloso quello di Benedetto XVI, nel senso evangelico del termine.

Farsi amare non sembra prerogativa della politica. Non crede che sia un concetto lontano dal presente?

Proprio per questo Benedetto XVI è stato è profetico: perché considera il presente come qualcosa da superare. Mettersi nella polvere del presente, questo sì, invece, vuol dire farsi trascinare dal particolare e perdere la visione del fine ultimo. Per la politica, farsi amare vuol dire privilegiare la logica dell’essere su quella dell’avere. La prima costruisce, ha detto il Papa nell’omelia di ieri, mentre la seconda distrugge.



Lei ha usato la parola profetico. La politica ha le forze per fare quello che il Papa chiede?

La politica che normalmente indichiamo come tale, non mi pare proprio. Ma nella politica «altra», quella che sorge e opera nella libera iniziativa delle persone che si mettono insieme e si danno da fare, in ciò che è essere più che avere; in quella politica, quello che dice il Papa accade. Queste realtà, dove si riferiscono alla Chiesa, ne fanno il vero lievito del rapporto Stato-società.

È il tema della laicità, anch’esso approfondito da Benedetto XVI.

Infatti. Il Pontefice ha parlato di un ruolo della Chiesa come indispensabile per lo Stato, non in violazione del principio di laicità, ma per così dire «dentro» di esso. Ha superato la vecchia concezione liberal-laicista, per la quale entrambi, Chiesa e Stato, coesistono l’uno accanto all’altro, così autonomi e così indipendenti che i loro rapporti non vanno oltre il mutuo rispetto. Una concezione gravida di conseguenze negative.

Negative?

Sì, perché questa visione ha fatto perdere allo Stato la consapevolezza di essere frutto della società, e nello stesso tempo ha ispirato nella Chiesa un rapporto con lo Stato solo di tipo rivendicazionistico. Benedetto XVI mi sembra invece rifarsi a Rosmini, dal quale la Chiesa è vista come «parte» della natura stessa dello Stato, pur senza occuparne una delle molteplici «parti», accanto a ciò che è di Cesare.

In altri termini?

È il ritorno ad un giusnaturalismo in cui la legge naturale è un riflesso della legge di Dio. La Chiesa è vitale per lo Stato perché aiuta la società a vivere. In tal modo aiuta anche lo Stato, che si vede non più come un ente separato dalla società, ma come qualcosa che ha con essa un rapporto osmotico. Questo bisogno è sotto gli occhi di tutti, perché non ci può essere un buono Stato se non c’è una buona società. La laicità del Papa è il superamento di un mondo di esclusioni reciproche. Ciò che manca nel discorso di Pisapia.

«Dopo il papa ci sarà il Dalai Lama e tanti altri», ha detto il sindaco.

Siamo contenti che il Dalai Lama venga a Milano, ma citarlo accanto al Papa vuol dire non comprendere nulla della storia d’Italia, perché la questione italiana è la presenza della Chiesa. È questo che la visione laicista non riesce a capire. Come se tutte le religioni fossero la stessa cosa all’interno di un determinato contesto, quello secolare, che le ricomprende tutte quante, alla pari.

Se non capiscono il Papa, cosa resta nella mani dei non credenti?

Sono in una fase di grandissimo sconcerto. Non sanno cos’è la reciprocità. Mentre il cattolicesimo in questi ultimi 50 anni ha fatto moltissimo per capire la laicità, lo stesso non si può dire di quest’ultima. E infatti, la decisione di eseguire alla Scala la Nona sinfonia di Beethoven è stata un autogol.

«Non è una gioia propriamente cristiana quella che Beethoven canta, è la gioia, però, della fraterna convivenza dei popoli», ha detto, apprezzando, Benedetto XVI.

Non voglio dire che dovessimo eseguire l’Ave Maria di Schubert. Però, se volevamo anche simbolicamente creare un rapporto spirituale tra due mondi, la Nona sinfonia era l’ultima cosa che bisognava scegliere, perché il canto di Schiller è un canto massonico. Ossia la separazione che diventa potere. L’opposto del cristianesimo: «Noi cerchiamo un Dio che non troneggia a distanza, ma entra nella nostra vita e nella nostra sofferenza» ha detto non a caso il Pontefice.

«Cerchiamo una fraternità» ha continuato il Papa «che, in mezzo alle sofferenze, sostiene l’altro e così aiuta ad andare avanti». Siamo ancora capaci di questa fraternità?

Il Dio che ha in mente il Papa è quello della Trinità, lo stesso di cui l’uomo, e la famiglia, sono fatti a immagine e somiglianza. Ma il Dio della Trinità, a differenza di quello di Schiller, si incarna.

La famiglia è relazione, si è sentito continuamente ripetere in questi giorni. La famiglia fondata sul matrimonio è ancora una risorsa per la società italiana?

Non c’è dubbio. Ho apprezzato lo straordinario accenno ai divorziati, quando il Papa ha detto che vivono nell’abbraccio fraterno della Chiesa, e il modo in cui Benedetto XVI ha parlato della festività. L’idea di «interrompere» il flusso del mercato non solo con il dono della carità, ma anche con quello della santificazione del riposo. Anche questo è un elemento sorprendentemente laico, perché sottolinea, di nuovo, l’importanza dell’essere sull’avere. Nella crisi che stiamo vivendo abbiamo bisogno − tutti, credenti e non credenti − di tornare ad una visione non capitalistica dell’essere.

(Federico Ferraù)

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